Compie oggi cento anni il “Manifesto degli intellettuali fascisti”. Un testo scritto da Giovanni Gentile, pensato per essere pubblicato in una data simbolica – quella del Natale di Roma – e come lettera aperta a tutto il mondo. Le 250 firme che sposarono le tesi gentiliane sono pesantissime: accanto ai fascisti della prima ora come Marinetti e la Sarfatti, comparivano nomi come Ardengo Soffici e Giuseppe Ungaretti, Giulio Aristide Sartorio e Ugo Ojetti… Era la crema dell’intellettualità italiana del momento. Molti, si sarebbe detto poi, aderirono per opportunismo, nel momento in cui la stella di Mussolini sembrava di nuovo in ascesa dopo l’eclissi della seconda metà del 1924, col Delitto Matteotti. Eppure fra quelle c’è anche il nome di Luigi Pirandello, che proprio nell’ora più buia del governo Mussolini aveva pubblicamente deciso di prendere la tessera del PNF e al quale piacque spesso e volentieri di farsi fotografare con la “cimice” al bavero.
Il “Manifesto” da solo dovrebbe servire a smentire quel luogo comune, così duro a morire (et pour cause) di un Fascismo “senza cultura”, un’orda di barbari (gli “hyksos”) accampati coi loro manipoli a bivaccare nelle istituzioni del Regno. In epoca di cancel culture quel documento costringe a ripensare più noi stessi oggi, nel nostro rapporto col passato, che il passato stesso. E di questo ne parliamo con Giuseppe Pardini, professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, autore di numerosi saggi sul Fascismo e su alcuni protagonisti dell’epoca, come Curzio Malaparte e Roberto Farinacci.
Professore, quali furono le ragioni profonde che spinsero tanti intellettuali ad aderire al Manifesto?
Era un momento storico particolare e il fascismo (ma più che altro il Governo di Mussolini) era appena uscito da una crisi politica e sociale piuttosto profonda, in seguito all’assassinio di Giacomo Matteotti; dopo la svolta del 3 gennaio 1925 occorreva quindi riannodare i fili di un discorso culturale già da tempo impostato da molti dei firmatari del “Manifesto” e che, giocoforza, aveva dovuto essere accantonato. Pur nella congerie di motivazioni ideologiche e di riferimenti culturali diversi, infatti, l’obbiettivo, ben impostato dal filosofo Giovanni Gentile, divenne quello di individuare gli elementi comuni nelle varie “anime” del fascismo (fu proprio questa la parola che venne indicata allora per evidenziare le differenze interne) e ampliare, dandole una certa organicità, il consenso nel variegato mondo della cultura in seguito all’allontanamento progressivo di un certo numero di intellettuali dal fascismo (il caso del noto drammaturgo Sem Benelli ebbe al riguardo notevole risalto)
In qualche modo, il Manifesto voleva essere una “mano tesa” verso tutte quelle forze culturali che non erano antinazionali. Ottenne risultati in tal senso?
In realtà il testo risentì di una impostazione filosofica particolare (il fascismo come nuovo e vero liberalismo in grado di rinnovare l’Italia del Risorgimento, impostazione tipica appunto della concezione gentiliana) che però non godeva di particolari e diffusi consensi nel Partito, e nemmeno nel suo gruppo dirigente. Per di più aderirono, associando il loro nome al Manifesto, molti esponenti politici di primo piano del fascismo stesso (basti pensare ai nomi di Farinacci, Bottai, Grandi, Acerbo, Arpinati, Bianchi, Ciano), rendendo, per questa via, più complessa l’operazione di proselitismo culturale, in un momento assai divisivo come quello in corso nella prima metà del ’25. Contrapposizione per di più acuita dal forte richiamo al fascismo come una fede religiosa, tale da additare in conclusione quali anti-italiani gli oppositori, non solo quelli dei partiti politici della sinistra (socialisti e comunisti) ma anche gli esponenti dei movimenti democratici, liberali, cattolici. Si trattava di una impostazione assai marcata, che non avrebbe potuto, come non ebbe, lasciare indifferenti molti altri intellettuali, che infatti avrebbero risposto con un simile pronunciamento pubblico (il Manifesto degli intellettuali non fascisti) un mese dopo.
Nell’epoca della cancel culture molti invocano l’annientamento di tutto ciò che è “politicamente scorretto” del passato. Trovandosi così nella scomoda posizione di dover buttare giù dalla torre anche un Pirandello o un Sartorio. Dovremmo smettere di rappresentare “Questa sera si recita a soggetto” o passare una mano di calce sul fregio della Camera?
Mah, oggettivamente per un uomo di cultura l’espressione “cancel culture” non andrebbe neppure presa in considerazione, mai e per nessuna circostanza. Tuttavia il ragionamento andrebbe esteso ad aspetti che concernono il rapporto tra intellettuali e politica, rapporto che non è mai facile e che espone sovente uomini di alta cultura anche a contorsioni, cambiamenti repentini, pentimenti. Fu il caso pure di alcuni dei firmatari del Manifesto, i quali negli anni avvenire avrebbero cercato di attribuire poco valore a quella adesione, o addirittura l’avrebbero sconfessata, per una ragione o per un’altra. Un uomo di scienza e di cultura tende sovente a sovrapporre piani di attività e, quindi, di intervento nella e sulla società, assumendo pose – improprie – di pedagogo e di imbonitore delle folle, informi e da educare a qualche civica coscienza, ma finisce così per smarrire il significato profondo della sua attività, rendendola vieppiù censurabile nel caso che questi rivesta anche ruoli importanti nelle istituzioni (come nel caso dei professori universitari, categoria compresa in elevato numero in entrambi i citati Manifesti). Al riguardo mi sovvengono alcune parole di Curzio Malaparte (allora giovanissimo Curzio Suckert che appose la sua firma al Manifesto, nonostante lo separassero distanze incolmabili dal pensiero del grande filosofo Gentile), il quale, nel tracciare un bilancio della sua fortunata e poliedrica attività, avrebbe lasciato riflessioni che molti intellettuali tutt’oggi dovrebbero tenere presenti nella loro attività: “se può contare l’esperienza – scrisse infatti Malaparte – io vorrei dir questo: gli artisti, gli intellettuali, gli scrittori, non debbono mai, dico mai, credere alle rivolte politiche in linea estetica. Gli artisti debbono disprezzare la politica e disprezzare i politici, tutti, senza distinzione di partito. All’artista deve premere l’arte e soltanto l’arte, e interessarsi ai costumi, alla mentalità, agli umori, alla cultura del Paese, e cioè alla sua civiltà”. Forse si trattò di un eccesso umorale, ma indubbiamente ancora oggi appare indicativo e utile ai posteri per evitare loro la facile (e remunerativa) posizione dell’intellettuale militante, iattura della politica da una parte e della cultura, ahimè, dall’altra. Comunque da non cancellare in alcun caso.