Da «Giovinezza» a «Bella Ciao»: quando la politica va oltre la «Leggenda del Piave»

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La canzonetta (e il suo parente colto, l’aria d’opera) hanno fatto l’Italia: da «Addio mia bella, addio» alle canzoni del Ventennio, dalla grande tradizione napoletana ai canti anarchici e di protesta

Nel 1962 Longanesi pubblicò una raccolta di Emilio Jona: «Le canzonette che fecero l’Italia». Un bel libro per ragazzi che riproduceva i fogli volanti con cui le canzonette venivano fatte circolare tra la gente nell’Ottocento. Era quello dei fogli volanti uno dei primi mass media che inoltre univa la musica popolare con la musica colta. Un popolo spesso analfabeta mostrava attraverso la musica di possedere una cultura reale per certi versi immensamente più profonda di quella di oggi. Il popolo infatti sapeva la musica, sapeva suonare, sapeva cantare e considerava pop (ci si consenta il termine) quello che oggi, dopo che la moneta cattiva ha scacciato quella buona, viene ritenuto un paludato (e un po’ impagliato) piacere per i soli privilegiati delle ZTL, l’opera lirica.

I fogli volanti consentivano alla musica di diffondersi: così alle melodie tradizionali si potevano aggiungere anche i nuovi prodotti dei compositori affermati o popolari. La gente comune, attraverso il foglio volante, aveva i testi e a volte un pentagramma col tema musicale. La gran parte della gente era poi in grado di arrangiare le note con gli strumenti in voga in particolare mandolino e chitarra (e basti ricordare che Giuseppe Mazzini era un apprezzato chitarrista) oppure la fisarmonica.

Così, grazie al foglio volante (che s’affiancava all’altro mass media dell’epoca: l’organetto da strada) la musica si diffondeva fra il popolo. Non stupisce dunque che nel giro di pochissimi anni cantare diventa un atto politico. Certo, s’era già iniziato durante la Rivoluzione Francese, con la «Marsigliese» e il «ça ira», ma nell’Ottocento questa moda esplode.

Il canto popolare diventa dunque rivoluzionario: il popolo si stringe in coro, prima che a coorte. «Addio mia bella addio» scritto nel 1848 da Carlo Alberto Bosi, diventa uno degli inni dei patrioti italiani. «Il Canto degli Italiani» datava l’anno precedente, mentre dieci anni dopo è l’«Inno di Garibaldi» a infiammare i cuori, con il suo travolgente «va’ fuora d’Italia, va’ fuora o stranier!». E tutto questo mentre il popolo cantava arie e cori d’opera, scandendo «Viva Verdi!» come grido di sfida alle sbirraglie anti-unitarie: l’acronimo «Viva Vittorio Emanuele Re D’Italia».

L’importanza di questa musica nella formazione della coscienza nazionale italiana è fondamentale: non è un caso che fino a qualche decennio fa i cori d’opera – in particolare il «Va’ pensiero» del «Nabucco» e “Si ridesti il Leon di Castiglia” dall’«Ernani», erano ancora insegnati nelle scuole elementari.

Dopo l’Unità d’Italia il canto popolare si biforca: tolto qualche esempio focoso – come il celebre «Inno di Oberdan» composto nel 1883 per ricordare il martirio dell’irredentista – è il canzoniere di protesta di anarchici e socialisti a costituire la gran massa della canzone politica, mentre il resto della nazione (e del mondo) s’appassiona alle romanze, portate al loro massimo splendore da autori come Francesco Paolo Tosti (autore di «Marechiare», 1886), che uniscono la raffinatezza della musica colta alla grande tradizione popolare, soprattutto napoletana. E infatti proprio in quegli anni nascono alcuni dei capolavori immortali della musica partenopea: «Funiculì funiculà» (1880), di Luigi Denza e Giuseppe Turco, dedicata all’inaugurazione della funicolare di Napoli, «Era de maggio» e «Catarì» di Mario Pasquale Costa e Salvatore Di Giacomo e soprattutto «‘O sole mio», di Eduardo Di Capua e Giovanni Capurro (1898). Ma sono solo pochi titoli, in un panorama sterminato che aveva preso il via nell’età del Barocco e sarebbe continuato fino ai giorni nostri.

Con la Grande Guerra poi nasce un enorme canzoniere che andrà dalle canzoni di protesta (sorprendentemente non così diffuse come una certa leggenda antinazionale vuol far credere) a quelle guerresche, patriottiche o semplicemente da caserma. La tradizione dei canti corali crea le struggenti melodie degli Alpini, fra cui spicca «Il testamento del capitano», un coro anonimo che risale al 1500 e che racconta tutto l’amor di patria e il senso del dovere degli italiani d’allora. E mentre la guerra avanzava, si faceva strada un’altra canzone destinata a cambiare la storia: «Giovinezza», di Giuseppe Blanc e Nino Oxilia. Era nata nel 1909 come canzone goliardica dei laureandi torinesi, col titolo «Il Commiato» e per caso era passata fra gli Alpini. Con la guerra quella celebrazione della gioventù era stata afferrata dagli Arditi, che ne fecero il loro inno, cambiando il testo: al ritornello «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza…» gli Arditi avevano aggiunto strofe guerresche. Accanto a «Giovinezza» un’altra canzone avrebbe infuocato i petti degli italiani, nell’ultimo anno di guerra: «La Leggenda del Piave», di E. A. Mario (al secolo Giovanni Ermete Gaeta), celeberrimo cantautore napoletano, composta durante la Battaglia del Solstizio del giugno 1918, in cui Italia e Austria-Ungheria si giocarono il tutto per tutto sul Piave e sul Montello. Non per caso, nel 1925, con decreto del presidente del Consiglio, sia l’autore di Giovinezza (solo Blanc, Oxilia era caduto in guerra) che Mario ricevettero dalla neonata SIAE 24 mila lire una tantum come riconoscimento del valore patriottico delle loro opere musicali, considerate oramai come patrimonio popolare. E quel presidente del Consiglio era Mussolini… Infatti nel dopoguerra divampa la guerra civile, di cui i Fasci fondati dal direttore del «Popolo d’Italia» sono parte integrante. Uno scontro in cui si cantò tantissimo: cantavano gli squadristi e cantavano socialisti e comunisti. I primi con tutto l’armamentario dei canti di guerra, degli Arditi e dei fiumani di d’Annunzio, i secondi – invero – con un po’ meno fantasia, concentrandosi sul classico dei classici «Bandiera rossa», sui canti di protesta ma anche su una versione degli Arditi del Popolo di «Giovinezza», canzone che evidentemente risultava troppo trascinante per poterla lasciare al solo nemico…

Il 28 ottobre 1922 vince il Fascismo e con esso anche il canzoniere popolare di riferimento. Non che sparisca, beninteso, quello di protesta, dei social-comunisti e degli anarchici, ma resta sottotraccia, clandestino come le opposizioni. In ogni caso, durante il Ventennio gli italiani hanno cantato, e tantissimo. È l’epoca dei «Telefoni bianchi», delle melodie che ammiccano ai nuovi stili d’oltreoceano: tango, fox-trot, charleston… Arrivano radio e grammofono e la musica, al foglio volante e al suonatore ambulante, può aggiungere ora dei mass media di potenza mai vista prima. Con la guerra d’Etiopia del 1935 però la canzone torna «impegnata»: nel momento di massimo consenso verso il regime non c’è quasi autore che non si senta in dovere di scrivere una canzone a supporto dell’impresa africana. È in quel frangente che nasce quella «Faccetta nera» di Renato Micheli e Mario Ruccione, inizialmente in dialetto romanesco e poi in italiano che sarebbe considerata tutt’ora un «inno non ufficiale» del Fascismo. Con una strana ironia del destino, poiché in realtà a Mussolini questa canzonetta non sarebbe mai piaciuta perché troppo celebrativa di una fratellanza fra italiani e nuovi sudditi coloniali.

La Seconda guerra mondiale scoppia trovando ancora il paese in luna di miele con il Fascismo. Nascono nei primi mesi del conflitto canzoni destinate a restare famose, la più celebre delle quali segna anche il canto del cigno del canzoniere fascista: quella «Sagra di Giarabub» (di Alberto Simeoni e Ferante Alvaro De Torres, musicata da Mario Ruccione, 1942) che canta una gloriosa sconfitta, una delle tante che porteranno l’Italia al triste epilogo della resa.

Non prima d’aver tuttavia visto divampare di nuovo – e con molta maggior ferocia – la guerra civile. Partigiani contro fascisti, entrambi ancora una volta con canzonieri «contro». E ancora una volta con canzoni spesso identiche a parte i testi: gli inni alpini e della Grande Guerra cantati dalla resistenza militare e dalle formazioni fasciste, per esempio. Mentre i partigiani rossi avevano in «Fischia il vento» il loro inno, scritto sulle note della canzone russa «Katiuscia» dal partigiano ligure Felice Cascione nel 1943. E concludiamo con una curiosità: «Bella ciao» con tutta probabilità non fu mai cantata dai partigiani: le prime tracce documentarie di questa canzone, scritta probabilmente sulle note di una melodia klezmer ucraina, risalgono al 1953. Il celebre canto della Resistenza sarebbe dunque un apocrifo e la sua fama data nientemeno che 1964. E quella è già l’era del pop, delle mode d’oltreoceano. La canzone italiana cambia totalmente. Ma questa è un’altra storia.

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