La sfida ai poteri forti lanciata da d’Annunzio a Fiume

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Mentre a Versailles venivano negati i diritti delle nazioni, il Vate dalla Reggenza lanciava la sua Lega dei Popoli oppressi, una sfida ancora attuale

L’Europa dei popoli o l’Europa della finanza e degli interessi più o meno leciti? È l’enigma che accompagna da sempre l’immagine dell’Unione Europea, soprattutto perché negli ultimi anni è emersa una UE che sembra non voler tutelare gli interessi dei suoi abitanti (come singoli e come nazioni), ma quelli delle multinazionali (in tal senso vanno anche letti i finanziamenti dati da certi oligarchi americani a politici italiani ed europei) e punta a impoverire i cittadini dell’Unione, soprattutto gli italiani con norme come quella sulle «case green» o sulle «auto elettriche», direttive poi astutamente modificate per ottenere un voto favorevole dal Parlamento Europeo in attesa delle elezioni del 9 giugno.

Un’Europa matrigna che non sembra voler sostenere i popoli preferendo la finanza. È «la mano che ordisce e strangola i popoli con catene d’oro», come cantavano gli IANVA. Contro chi ordiva, si sollevò colui che ardiva: Gabriele d’Annunzio, che nel settembre 1919 guidò un gruppo di ammutinati del Regio Esercito alla liberazione di Fiume, città a larga maggioranza italiana che la conferenza di Versailles aveva deciso di assegnare al neonato regno di Jugoslavia. Nella Galleria degli Specchi della reggia francese si materializzò la favola di Esopo delle «parti del leone». All’Italia, messa in minoranza dal prepotente terzetto USA, Regno Unito e Francia (socia di minoranza e utile idiota dei primi due) veniva applicato con studiata incoerenza il principio di nazionalità quando andava contro i nostri interessi (la Dalmazia, promessa col Patto di Londra quattro anni prima e ora negata perché a maggioranza slava) e lo stesso principio veniva ignorato quando a favore (con Fiume, appunto, a maggioranza italiana, ma negata perché non inclusa nelle promesse del Patto di Londra).

D’Annunzio, dunque, col suo storico «disobbedisco!» intese raddrizzare questo torto. Ma fu solo il primo passo di un’avventura utopica ma che tutt’oggi resta molto istruttiva: quello della Lega di Fiume nel nome delle Nazioni oppresse, un progetto forse chimerico ma che procurò qualche grattacapo ai gonfi oppressori. E gettò dei semi pronti a germogliare in futuri insospettabili. «Sarà la nuova crociata di tutte le nazioni povere ed impoverite, la nuova crociata di tutti gli uomini poveri e liberi contro le nazioni usurpatrici ed accumulatrici di ogni ricchezza» arringò dalla ringhiera del Palazzo del Governo in uno dei suoi primi discorsi alla folla che lo acclamava. La Città di Vita divenne una contro società, un laboratorio dove si sperimentarono nuovi modelli sociali e politici. A Fiume s’incontrarono anarchici, futuristi, arditi e socialisti, tradizione ed innovazione, morale e trasgressione. Il Comandante credeva nella fratellanza dei popoli oppressi, nel diritto di ogni popolo a disporre di se stesso. «La sovranità appartiene a tutti i cittadini senza divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe, di religione», recitava la Carta del Carnaro, la rivoluzionaria costituzione fiumana anticipatrice di tanti temi della modernità.

A gennaio del 1920, dopo la delusione per la mancata annessione della Città Olocausta all’Italia nonostante l’ardito gesto dei legionari fiumani, il sindacalista Alceste De Ambris, una delle menti più lucide e lungimiranti del suo tempo, autore della prima stesura della Carta del Carnaro, decise di rilanciare e alzare la posta. Se le mene bottegaie delle potenze avevano sputato sull’offerta generosa di Fiume all’Italia, da Fiume sarebbe partita una rivoluzione in grado di incendiare il mondo. «La vittoria nostra sarà vittoria di tutti gli oppressi». Scrisse De Ambris, nuovo capo di gabinetto della Reggenza del Carnaro, il 16 gennaio 1920. Dalla Città di Vita sarebbe partito il grido di rivolta delle nazioni oppresse e sottomesse al «giogo dell’enorme Impero britannico». De Ambris stilava così un sommario elenco: dal Belgio, liberato dai tedeschi per finire sotto il tallone inglese, all’Egitto e al Sudan, fino alle «repubbliche latine dell’America» sottoposte già allora «con terrore all’istruzione sempre più sfacciata degli Stati Uniti».

D’Annunzio era pronto a issare la bandiera della rivolta spingendo la migliore gioventù europea in quella marcia bella e colta, fiera e rivoluzionaria e saldò in una sola volontà di rivolta tutte quegli uomini che possedevano nelle ossa e nelle arterie sale e ferro bastevoli ad alimentare la loro azione plastica. Il 30 marzo 1920 il Comandante lancia una delle sue più celebri arringhe ai legionari fiumani intitolata «Con me»: «Davanti alla nazione e davanti al mondo – grida il Poeta – di contro all’ombra di due continenti, la nostra bandiera è la più alta. È issata al culmine della passione eroica. È issata alla cima della volontà umana di patire, di lottare, di resistere, di liberarsi, di vincere. È issata là dove la vita e la morte sono una forza alterna, di creazione e di trasfigurazione. Tutti quelli che oggi patiscono l’oppressione e la mutilazione, tutti guardano a questo segno. L’ho detto. Dall’indomabile Sinn Fein d’Irlanda al rosso stendardo che in Egitto unisce la Mezzaluna e la Croce, tutte le insurrezioni dello spirito contro i divoratori di carne cruda si accendono alle nostre faville che svolano lontano. […]. Alla lega delle Nazioni noi opporremo la Lega di Fiume; a un complotto di ladroni e di truffatori privilegiati opporremo il fascio delle energie pure».

È il grido di rivolta verso quei «governi del materialismo insaziabile e dell’eterno scetticismo» (come il Poeta-Soldato definì in un’altra sede le potenze imperialiste). Anticipatore, come sempre, il Vate aveva lanciato il cuore troppo oltre l’ostacolo. I tempi infatti non erano maturi. Le nazioni a cui si rivolgeva erano intente a curare i loro imperialismi (Russia e Italia) o avrebbero strappato l’indipendenza solo un trentennio dopo (Egitto e India). Il Sudamerica avrebbe visto il tallone americano ripresentarsi sotto tante forme durante tutto il XX secolo. Solo l’Irlanda, dei tanti popoli a cui De Ambris e d’Annunzio si rivolsero, lottò e vinse contro gli inglesi in quello stesso periodo.

Oggi però la storia sembra ripetersi. Sotto il tallone non ci sono i popoli coloniali, ma quelli europei. L’oppressore stavolta ce l’abbiamo in casa. Ma la mano che «strangola i popoli con catene d’oro» è la medesima. «È necessario che una nuova fede popolare prevalga contro la casta politica al servizio della spietata plutocrazia», urlò d’Annunzio in quel lontano 1919, oggi più vivo che mai. Centocinque anni dopo il disegno di oppressione è portato avanti con lo spread, la burocrazia, il green, la società del controllo, le tasse, l’attacco alla proprietà privata e alla libertà di spostamento. E tanti sono ancora i Cagoja, (l’appellativo con cui il Vate sbeffeggiava l’allora presidente del Consiglio Saverio Nitti) disposti a disconoscere la volontà e gli interessi del popolo per compiacere potenze straniere. L’Europa è solo se è Europa dei popoli liberi e fraterni fra loro. L’indecoroso frullato arcobaleno che i burocrati europei stanno apparecchiando alle nazioni del continente è la negazione stessa della storia e dell’identità della nostra civiltà. Contro di essa va alzata la «bandiera più alta», che è quella della libertà e dell’autodeterminazione.

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