Duemila anni di calunnie contro il “mostro” Nerone

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Jan Styka, Nerone a Baia, raffigurato nella sua villa con una tigre, a simboleggiare il suo interesse per le stravaganze e l'esotico. Alle spalle il Vesuvio - Jan Styka / Public domain

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Tacito e Svetonio costruirono l’immagine maledetta dell’imperatore artista

Tenace è il destino di condanna per chi ha avuto nemici dalle abili parole: nemmeno una statua colossale, quella che diede il nome all’Anfiteatro Flavio, di bronzo e d’oro, bastò a Nerone per sopravvivere alla damnatio memoriae. Abbattuta dalle calamità o dai cristiani, come vuole la tradizione, la statua è precipitata giù, come la reputazione dell’imperatore maledetto. Provateci a trovarlo un Nerone tutto intero in giro per il mondo, in una piazza o un crocicchio; certo sulle monete, nei musei a mezzo busto, ma ben esibito nulla o poco: per niente esemplare l’imperatore artista e folle. Il poco è ad Anzio, cittadina di nascita di Lucio Domizio Enobarbo che sarà a 17 anni imperatore: quando nel 2010 la statua è stata svelata poco lontano dalla magnifica villa sul mare del princeps, perfino The Times, da Londra, si scomodò per chiedere al sindaco se fosse tranquillo nel mettere in strada un tipo di così cattiva fama. Questo perché la leggenda nera, creata da una storiografia antica di rango senatorio parecchio ostile a Lucio Domizio, ha attraversato i secoli cristiani incupendosi ed è arrivata dritta alla cultura popolare attraverso i film di Hollywood, nei quali Nerone è solo un efferato persecutore e un eccentrico strimpellatore di fronte alla fiamme, non di un falò estivo, ma di Roma che brucia. Non che siano mancati i tentativi di vincere la tradizione di condanna: Girolamo Cardano pubblicò un Neronis Encomium in pieno Rinascimento, tratteggiando un Nerone “vendicatore della plebe e tirannicida”; nel 1863 il narratore inglese G.H. Lewes si chiese “Was Nero a monster?”. Ancora nulla o poco, la crosta è dura.

Oggi conviene sapere che il nemico chiamato fake è di antica casata e le sue insidie resistono al tempo. Ci è utile tirare giù dallo scaffale il libro scritto dalla penna vivace di Massimo Fini, Nerone. Duemila anni di calunnie, ubblicato da Marsilio nel 1993, che scortica due millenni di storiografia con leggerezza e tanto acume. Ci ricorda Fini che Nerone gli odi degli aristocratici se li è guadagnati non per le sue stravaganze, ma per una politica orientata al sostegno dei ceti popolari. Con la svalutazione delle monete d’oro e d’argento, Nerone aumentava liquidità e circolazione di denaro, erodendo ricchezza del ceto aristocratico improduttivo. la diminuzione del prezzo del grano sul mercato, per non regalarlo a pochi e venderlo salato a molti, danneggiava i latifondisti; la politica fiscale limitava lo strapotere dei pubblicani e di coloro che ne controllavano il business; la politica estera era accorta sul fronte britannico e orientale, poco incline all’aggressione e dunque al bottino; il valore dimostrato attraverso gli agoni sportivi e artistici, piuttosto che in quelli militari, e l’inclinazione, quasi naturale, verso le manifestazioni di vita allegra del popolo apparivano poco degne di trionfo: su questo Tacito e Svetonio, a qualche decennio di distanza, costruiscono un ritratto tanto nero quanto mistificante di Nerone. Troppo lungo star dietro alle sue intemperanze, ai suoi delitti veri o presunti, ma fatto certo è che, quando la letteratura storica cristiana ha cominciato a contare qualcosa, la fama dell’imperatore Nerone persecutore della nuova religione si è definitivamente cristallizzata nell’immagine fosca che conosciamo e il palcoscenico consolidato è stata Roma in fiamme: Fini spiega che la condanna è andata ben oltre le responsabilità individuali di un princeps, capace anche di clemenza e perfino di innamorarsi sul serio. Pur senza social e senza tasti per inoltrare falsi, Nerone è tagliato fuori dalla storia che edifica: una bella mostra romana del 2011, Nerone, curata da Rossella Leo e Maria Antonietta Tomei, ci mostra attraverso indagini archeologiche e fonti materiali che proprio l’edificare fu un tratto distintivo della politica neroniana. Soprattutto dopo l’incendio, che tanto lo danneggiò nelle proprietà, prese vita un nuovo progetto di città, ripulita dalle macerie e più sicura. La Domus Aurea fu il sogno privato e felice di questa ricostruzione, le grandi strade il segno pubblico. Il libro di Fini ha permesso di affilare le armi: nel 2016, Edoardo Sylos Labini porta a teatro una pièce liberamente tratta dal saggio e dallo stesso titolo. Nerone emerge come eroe pop, una coraggiosa spina nel fianco dei poteri forti rappresentati dalle famiglie aristocratiche della Roma del I secolo. Potente e ribelle al tempo stesso. Al centro della scena la felice intuizione di una Domus Aurea festaiola, che contamina antico e moderno, palcoscenico di un imperatore che prova una rivoluzione culturale attraverso l’arte. E la scorza dura della leggenda nera forse solo dall’arte è scalfita. E l’arte ha culla in Grecia, dove Nerone a trent’anni cerca gloria, nelle corse, nei canti, nelle strofe. Quasi due millenni dopo il poeta di lingua greca Constantinos Kavafis appunta dei versi, La scadenza di Nerone, che dimenticano la tradizione del princeps maledetto, ma cantano l’artista beffato a Delfi da un oracolo mal compreso: sperando in una vita lontana dalla scadenza, Nerone torna a Roma, stanco “di una stanchezza tenera del viaggio che fu ricco…in godimenti, nei teatri, nei giardini, nei ginnasi dell’Acaia”. Fuori da questi versi, troverà sangue, fango e nemici, tenaci nel tempo.