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Quello sulle Fake News è un dibattito recente; almeno nel suo aspetto più mediatico. Ha un inizio preciso, un punto di snodo attraverso il quale, come d’incanto, l’opinione pubblica internazionale ha scoperto che nel mondo girano un sacco di false notizie. Incredibile! L’anno zero è il 2017, anno in cui Donald Trump diventa Presidente degli Stati Uniti. Da quel momento il problema entra nell’agenda dei custodi del politically correct. Trump è stato il primo Presidente della storia Usa ad aver vinto la competizione elettorale non contro il proprio rivale candidato, ma contro l’intero sistema mainstream. Trump non ha battuto la Clinton; ha battuto la Cnn, il New York Times, la Nbc, la Abc, Cbs, il Washington Post, i circoli culturali e intellettuali, le potenti Istituzioni universitarie, Hollywood, Netflix, Wall Street e la grande finanza. Sono stati loro i veri avversari di Trump. E i veri sconfitti. Mai nella storia americana un candidato è stato così violentemente, spudoratamente, attaccato dall’intero sistema mediatico con una campagna d’odio mai registrata in una democrazia. Per questo la sua vittoria (imprevista da tutti i sondaggi, anch’essi strumento privilegiato del condizionamento mainstream) va considerata un punto di non ritorno nel dibattito politico. Il ragionamento, allora, è stato più o meno questo: se Trump ha vinto, doveva aver barato. Come? Semplice, aggregando attorno a sé un improbabile esercito di manipolatori della realtà: complottisti, hacker russi, orde di suprematisti bianchi della rete, manipolatori di coscienze democratiche, tutti appassionatamente avevano agito diffondendo falsità, utilizzando la velocità dei social e l’incontrollabilità della comunicazione virale e disintermediata che Trump alimentava con una campagna elettorale interamente fatta su Twitter e Facebook. In questi tre anni il dibattito sulle fake news si è focalizzato su questo aspetto: come arginare le bufale di cui la rete è piena. Task force governative, comitati di controllo sui linguaggi, normative censorie, zelanti guardiani del politically correct lavorano muovendosi in un campo in cui il confine tra lotta alle “bufale” e censura è molto labile. Dimenticando la cosa più importante: che le fake news sono innanzitutto un prodotto del mainstream che di esse ha fatto da sempre un uso spregiudicato. Per fake news non s’intende, ovviamente, la notizia sbagliata; ma quella volutamente sbagliata. Costruita a scopo manipolatorio, finalizzata alla creazione di una narrazione che sposti il consenso e legittimi i comportamenti di governi o centri di potere. Apparentemente nulla di nuovo: manipolazioni, falsità, costruzioni di teoremi sono sempre stati strumenti di lotta politica. E anche la storia dei nostri giorni ne è piena: dalle “armi chimiche di Saddam”, alle false prove sui presunti crimini di Gheddafi nel 2011 che giustificarono l’invasione americana in Iraq e l’intervento militare di Sarkozy e Obama in Libia con conseguenze disastrose in Medio Oriente e Mediterraneo. Il conflitto in Siria, che i media si ostinano a chiamare “guerra civile”, sarà studiato come il più efficace esempio di produzione di fake news seriali da parte del mainstream occidentale. Vigilare contro la circolazione in rete di false notizie e manipolazioni è cosa giusta. Ma bisogna sempre ricordare che è l’informazione dei grandi network globali a produrre quelle più clamorose e pericolose. La democrazia non sarà messa in crisi dal complottista anonimo su Twitter; non sarà lui a far rivincere Donald Trump. Di sicuro può metterla in crisi il sistema della grande informazione quando decide di abdicare alla ricerca della verità