Enrico Ruggeri: il poeta più libero della musica italiana

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Ecco l’intervista a Enrico Ruggeri sul numero 56 di CulturaIdentità in edicola e in versione digitale.

«Il libero pensiero ha un prezzo da pagare»: canta questa frase il coro di Enrico Ruggeri nel suo ultimo emozionante singolo, Il poeta che, con buona pace dell’autotune, conferma che esiste ancora chi sa fare musica vera. Lui è uno dei poeti della musica italiana e lo sa bene, tanto che questo brano è in qualche modo anche un autoritratto: molti pseudo opinionisti e tuttologi emarginano pensatori che non seguano le mode ideologiche del momento ma, per chi come Rouge ha personalità da vendere, nulla ha più valore della propria coerenza artistica.

Il cantautore milanese ha dimostrato in quarant’anni di carriera di sapersi trasformare e di innovare la musica italiana (fu lui il primo, nel 1993, a vincere con un autentico rock a Sanremo: era l’anno di «Mistero»). Delicato nelle parole d’amore, quanto diretto con tematiche forti (ricordate «Nessuno tocchi Caino», contro la pena di morte?), Ruggeri è da sempre un uomo libero che se ne infischia delle polemiche sollevate da chi vuole creare polveroni intorno al nulla. Qualche anno fa, dovette quasi giustificarsi per aver scritto una canzone dal titolo «Il volo su Vienna», dedicando strofe a d’Annunzio anziché ai soliti nomi cari a una sola parte politica.

In questi giorni Enrico, dopo aver pubblicato l’anno scorso l’autobiografia «40 vite», è uscito con il suo nuovo album (il ventisettesimo da solista, trentunesimo contando quelli con i Decibel). Si intitola «La caverna di Platone», riprendendo il celebre mito filosofico che vedeva i prigionieri accontentarsi dell’immagine delle loro ombre, credendola l’unica realtà esistente dacché ignoravano quel che accadeva alle proprie spalle. Tiene a precisare che non si tratta di un concept album: «Ci sono una serie di canzoni che osservano la realtà partendo da uno sguardo sul passato. Ci sono canzoni d’amore, sull’Europa, sulla guerra. È la mia visione del mondo», ammette chiarendo così l’importanza che ha per lui questo progetto, per il quale ha fatto attendere tre anni. Fra le tracce, anche un brano con suo figlio, Pico Rama: «Si tratta dell’unica collaborazione in un disco che vanta di non avere feat e marchette varie. Pico ha scritto questo pezzo, che ci stava nell’album perché si parla della conciliazione con se stessi: io l’ho solo cantato e arrangiato». Dal 1° aprile parte dai Magazzini Generali di Milano la sua tournée per spostarsi dopo due giorni al Largo Venue di Roma, pronto a entusiasmare come sempre.

Protagonista anche su Raidue fino al 4 gennaio con la seconda edizione di «Gli occhi del musicista», da diverso tempo ormai Ruggeri è narratore di storie della nostra cultura non solo attraverso le sette note, ma anche in televisione e in radio. Sempre vero e indipendente dal pensiero comune.

Il poeta è la vita di qualunque artista libero?

I pensatori profondi e liberi sono sempre stati osteggiati nella storia. Da Socrate a Oscar Wilde, passando per Ezra Pound fino a Pier Paolo Pasolini: chiunque si prenda in esame, conferma questa tesi. È poco ipotizzabile immaginare un pensatore che non divida e, d’altra parte, si tratta di una qualità positiva, un privilegio.

Essere divisivi è positivo?

Certo. Oggi la parola viene usata in accezione negativa, in realtà però bisogna capire cosa realmente implichi dividere. Significa che dovremmo tutti avere un solo pensiero? Allora il divisivo è uno che esce dal seminato rompendo gli schemi. Pertanto, in un luogo in cui ci si confronti civilmente, l’essere divisivo dovrebbe risultare un valore aggiunto anziché un limite.

Ti senti uno di quei poeti messi da parte in quanto non conformisti?

Un po’ sì: la storia lo dimostra. Ma in fondo va bene così. Il mondo della musica appare terrorizzato dal web e dalle tempeste mediatiche: chiunque venga interpellato e sostenga di essere «giallo», un secondo dopo si affretta a dire di sentirsi anche «rosso». Oggi uno deve dire di tifare alla Juve ma un po’ anche all’Inter e al Milan: hanno tutti paura di essere attaccati. Io più passa il tempo e meno ho questa paura, però ovviamente pago questo atteggiamento.

Anche commentando gli ascolti de Gli occhi del musicista, ti sei rivelato anticonformista: chiunque avrebbe chiesto di essere mandato in onda solo nell’orario di maggiore share, invece tu hai pensato a ringraziare sui social quello zoccolo duro di spettatori, disinteressandoti di fare numeri alti.

Quando ho iniziato a fare questo mestiere sapevo due cose per certo: non avrei riempito San Siro e non sarei scomparso. Avevo le caratteristiche per durare nel tempo, ma non per essere plebiscitario.

Questo si è riversato in tutto quello che ho fatto, compresa la televisione, dove però mi piace fare cose di qualità.

Ogni tanto vieni tirato in ballo con questioni sul politicamente corretto. Qualche anno fa ci fu una polemica che vide protagonista la Nazionale Cantanti, di cui sei presidente: in seguito a un fraintendimento con Aurora Leone, qualcuno strumentalizzò la vicenda e se ne andò persino dal ritiro.

Ormai quella è già una storia passata: come prevedibile in questi casi, tutto si è risolto in una bolla di sapone. Mi ha fatto riflettere una frase di Christopher Lambert, che ha affermato «Se sto per entrare in ascensore e vedo che c’è una donna, esco immediatamente dall’ascensore»: oggi purtroppo hanno creato un mondo in cui si ha paura di ogni cosa, si rischia in qualunque momento di fare qualcosa di sbagliato, bisogna stare attentissimi a come ci si muove o si parla, a livelli folli.

Fiorella Mannoia ha cambiato il testo di «Quello che le donne non dicono»: «Ti diremo ancora un altro sì» lo ha fatto diventare «Ti diremo ancora un altro no».

Ma il senso era già in tutto il resto della canzone: quella frase significava chiaramente «qualora voi vi comportiate bene, noi vi diremo ancora un altro sì». Dal punto di vista grammaticale e musicale non ci stava proprio la parola «no»…

Parliamo della caverna di Platone. C’è mai stato un momento della tua carriera in cui hai scoperto la luce fuori dalla caverna, rivedendo le tue opinioni?

Chiariamo, cambiare opinione non è un peccato, anzi: l’importante è che non si cambino i principi, ma le opinioni possono assolutamente mutare. Quando si è ragazzi si vuole essere molto tranchant: nel mio caso suonavo rock, facevo cose musicali precise, pensando ci volesse una sola cifra e senza immaginare che pochi anni dopo avrei realizzato brani con la fisarmonica, pezzi francesizzanti. Il mio cambiamento di opinione principale è stato nello scoprire che si potessero fare cose nuove e interessanti, che non supponevo mi piacessero.

E a proposito di principi, parlavi appunto del tuo percorso da chansonnier e da rocker, mentre oggi si tende a scimmiottare la musica trap americana: ma esiste ancora una musica identitaria italiana?

Sul piano musicale sempre meno perché, come giusto che sia, ci sono influenze che arrivano da altri mondi. Dal punto di vista dei testi, però, penso di sì: su quelli ci sappiamo distinguere perché raccontiamo delle storie. Per i testi, gli italiani sono sicuramente sul podio, senza invidiare nessuno americani, francesi o brasiliani, tutti altrettanto forti.

Anche in questo ultimo album hai ben due canzoni dedicate a Milano, di cui una sulla strage di Gorla del ’44 [quando una scuola elementare fu colpita dalle bombe americane, con 184 bambini uccisi NdR]. Conosciamo però le tue influenze irlandesi, francesi e oltreoceano: dopo tanto viaggiare per il mondo, qual è la città identitaria di Enrico Ruggeri?

È assolutamente ancora Milano, perché ci sono nato. Certo, pensando alla mia adolescenza, avevo il mito di Londra, ma se andassi adesso rimarrei deluso: preferisco rimanere con l’idea della Londra del punk, della new age, di Camden Town, piuttosto che mischiarmi col woke di oggi.

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