Italiani contro italiani: quel Natale di sangue a Fiume

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Sarebbe facile schierarsi da una parte o dall’altra in un episodio tragico come il Natale di Sangue. I cannoni di due corazzate contro un palazzo occupato da un poeta! Eppure, se c’è qualcosa che ci avevano insegnato i tragediografi antichi (e che oggi abbiamo scordato) è che anche “l’altra parte” ha le sue ragioni, i suoi dubbi, le sue lacerazioni interiori.

Non fu piacevole per il governo di Roma dover interrompere brutalmente l’impresa di Fiume, iniziata il settembre del 1919 e mossa dai più puri sentimenti di patriottismo risorgimentale. Ma l’Italia era sulla graticola internazionale. Un paese esausto, strangolato dai debiti con gli Stati Uniti, agitato dalla minaccia di una rivoluzione bolscevica al suo interno e da una guerra civile incipiente fra “rossi” e fascisti. Il governo Giolitti aveva bisogno di stabilità, ripresa dei rapporti col nuovo vicino (il regno Serbo-Croato-Sloveno, di lì a poco “Jugoslavia”), chiusura dei contenziosi, definizione delle frontiere. L‘Impresa di d’Annunzio a Fiume, col suo carico di idealismo rivoluzionario, era un ostacolo all’opera di normalizzazione perseguita da Giolitti.

Quello del governo di Roma fu uno “sporco lavoro”. Il comandante delle operazioni, generale Enrico Caviglia, dichiarò poi di non essere stato avvisato delle reali intenzioni del governo in un libro che il Fascismo proibì (“Il conflitto di Fiume”, pubblicato poi nel 1948). L’intera operazione, poi, venne condotta con la complicità delle feste natalizie, con la popolazione distratta e i giornali in vacanza.

Le truppe, dagli ufficiali ai soldati, erano straziate. “26 Dicembre. Giorno sacro per la nostra Patria, giorno indimenticabile per me che in esso conobbi le dolorose vicende di una guerra in cui italiani combattono contro italiani, in cui fra i nemici ebbi compagni di scuola, in cui da una parte sta l’entusiasmo e la tenacia per il compimento di una causa, e dall’altra il dovere“, scrisse il guardiamarina Pietro Benazzi, imbarcato sulla corazzata Doria.

Gli scontri durano ore. Le corazzate aprono il fuoco contro il cacciatorpediniere Espero, in forza alla Reggenza, su una caserma e infine sul palazzo del Governatore, dove arrivano due colpi da 152 mm e d’Annunzio viene ferito al capo. Sulle strade che si avvicinano alla Città di Vita le truppe di Roma e i legionari si bersagliano e scorre sangue fraterno. Di nuovo italiani contro italiani, “come nel Medioevo”. Alla fine si conteranno 58 morti, fra civili (sette) e militari, 27 legionari e 25 regolari. Circa 200 i feriti, fra cui il Comandante.

La guerra civile è fra le guerre la più orrenda. Sia i militari del Regio Esercito e Marina, sia i Legionari di d’Annunzio vogliono fermarsi un passo prima. D’Annunzio e i suoi trattano con Caviglia e si giunge a una soluzione onorevole (lezione che i diplomatici del XXI secolo hanno saltato, mentre studiavano…): la Reggenza capitola, ma i Legionari verranno trattati con tutti i riguardi, avranno l’onore delle armi e l’amnistia per il loro ammutinamento del 1919. D’Annunzio può tornare in Italia da eroe, ancorché sconfitto.

Tuttavia per lui la delusione è cocente. Il suo idealismo di poeta-soldato si è infranto contro le gelide esigenze della realpolitik. Quello che doveva essere un suo compagno di lotta, Benito Mussolini, è rimasto a guardare, cinicamente consapevole dell’inevitabile esito di questo conflitto civile. Se la politica è una partita a scacchi, non si deve temere di farsi prendere anche i pezzi più pregiati, nella strategia di dare scacco matto all’avversario…

Tre anni dopo sarà proprio il governo incaricato dal Re dopo la Marcia su Roma a riportare Fiume sotto il nostro Tricolore. Il prezzo sarà alcune cessioni territoriali alla Jugoslavia e la fine d’ogni slancio idealista. Gabriele d’Annunzio, deluso, stanco, amareggiato, non vi partecipa e respinge coloro i quali lo invocano per affiancare Mussolini o addirittura per sostituirlo al capo delle squadre d’azione in camicia nera. Si è ritirato a Gardone, dove il governo di Roma è ben contento che rimanga come pensionante di lusso. Del resto, la rivoluzione non è un pranzo di gala, ma – evidentemente – neppure una declamazione di poemi. Serve cinismo, cattiveria, realismo e piedi di piombo. E fra le tante virtù del Poeta-Soldato, queste non figuravano…

Tutti i protagonisti di quel Natale di Sangue avevano, in cuor loro, perseguito ciò in cui credevano: la Patria, l’onore, la fedeltà ai giuramenti e la pace. “Sentiamo tutti un infinito bisogno di pace” aveva scritto il guardiamarina Benazzi il 1° gennaio, mentre le trattative fra Reggenza e governo di Roma chiudevano quella pagina gloriosa e tragica.

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