Parla Gianmarco Tognazzi: «Ugo, mio padre», una vita ironica presa sul serio

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Foto: Erica Fava - www.gianmarcotognazzi.com

Gianmarco Tognazzi quell’odiosa etichetta di figlio d’arte se l’è sentita affibbiare sin dai tempi in cui condusse nel 1989 un Festival di Sanremo che critiche ingenerose bocciarono proprio per la scelta dei quattro giovani presentatori, tutti con genitori celebri. Un’etichetta che lo accompagna ancora oggi, quando l’esperienza e il curriculum parlano oltre ogni sospetto. La verità è che, anche per essere certi “figli d’arte”, bisogna avere coraggio e mestiere. Proprio come Gianmarco, che dal 2010  ha preso in mano la Tognazza, l’azienda enogastronomica fondata da papà Ugo e trasformata dal figlio in una casa museo vitivinicola, che fa ormai parte del circuito italiano europeo storico delle Case della Memoria. Gianmarco è ospite del Festival delle Città Identitarie 2024 a Pomezia, territorio dove i Tognazzi hanno una storia importante, come ci racconta. 

Il tifo per il Milan, la versatilità tra ruoli comici e seri, la gestione della Tognazza: hai ereditato talmente tante cose da tuo padre che ne sei la logica continuazione. Ne parli sempre con piacere?

Certamente. Credo che ricordarlo sia un dovere da parte mia e provo a portarlo avanti nel migliore dei modi. La casa-museo di Velletri mi dà possibilità di convogliare cosa significa quel posto per Ugo e come tutto sia nato. I personaggi, le battute, le invenzioni, le sue ricette sono tutte nate lì dentro: quella casa doveva quindi diventare un punto di condivisione per il suo pubblico.

Si entra in quella casa e si respira davvero casa Tognazzi con visite guidate e degustazioni abbinate.

Mi piaceva l’idea che si potesse entrare in contatto diretto con Ugo. Ho ricostruito l’archivio sulle pareti di quella casa, dove c’è uno spirito di condivisione informale. Abbiamo sempre tantissime prenotazioni: questo mi fa pensare che al pubblico non manca mai la voglia di riscoprire la propria memoria, ma sono le iniziative a mancare. Invece bisogna farle, ma con continuità, perché una ogni dieci anni non serve a nulla.

Quest’anno il Festival delle città identitarie è a Pomezia. Cosa rappresenta per te questa città?

È il luogo delle vacanze, del mare. Torvaianica e Pomezia sono punti di riferimento della mia vita: da bambino vi rimanevo da fine maggio a inizio ottobre quando ricominciava la scuola. Chi la vive sa cosa intendo quando la definisco una piccola oasi: sebbene non sia il mare più bello in assoluto, ha un suo fascino con le sue dune, una macchia mediterranea che la rende inimitabile.

Come divenne il posto di villeggiatura della famiglia Tognazzi?

Erano gli anni ’60: Ugo cercava una destinazione al mare da cui fosse possibile raggiungere comodamente la zona di Roma Sud, ossia Cinecittà: non a caso altri colleghi avevano fatto la stessa scelta, da Ivo Garrani a Vianello fino a Luciano Salce. Così trovò questo posto in mezzo alle radure e alla pineta, all’epoca senza nome, vicino all’aeroporto di Pratica di Mare: iniziò prendendo una casa in affitto, poi comprò dei lotti e arrivò a fare campi da tennis.

Dove per trent’anni si tenne un torneo per attori, giornalisti e personaggi di spettacolo: il famoso Scolapasta d’oro.

Fu la prima manifestazione ludica per attori e gente di spettacolo. Ugo pensò: “Se il premio della Coppa Davis è un’insalatiera d’argento, noi dobbiamo avere uno scolapasta… d’oro!”. In realtà va detto che l’unico obiettivo vero di Ugo, però, anche in questo, era lo stare insieme e condividere la passione per il tennis, chiudendo le serate con una bella spaghettata tra amici. Poi negli anni si trasformò in un evento tradizionale. Lui faceva le cose principalmente per divertirsi con gli amici e poi questo diventava sempre qualcosa di più.

Oggi però non viene più ripetuto.

I tempi sono cambiati, sono tutte cose che emergevano appunto in modo spontaneo con un’interazione fuori dal set, che l’industria cinematografica dell’epoca permetteva. Per il centenario della nascita di Ugo, però, in verità facemmo la Padella d’oro, ossia un torneo… di padel!

Quella zona in cui prese casa tuo padre assunse persino il nome, rimasto immutato, di Villaggio Tognazzi. Che effetto fa?

Bellissimo, perché è la testimonianza di cosa rappresentasse Ugo per la gente. Probabilmente era il più famoso tra i villeggianti in quegli anni e, non essendoci appunto ancora un appellativo che identificasse il posto tra le radure, lo chiamarono popolarmente Villaggio Tognazzi, fino a ratificarne definitivamente il nome. Oggi Il Villaggio è una comunità di mille anime: ci sono i figli dei figli che si sono tramandati la frequentazione e, conseguentemente, la memoria di Ugo.

Cosa che continuate a fare anche voi Tognazzi.

Certo, lì abbiamo amici che sono praticamente fraterni: su tutti Ettore Costa, il gioielliere che disegnò lo scolapasta d’oro. Sono molto grato alle amministrazioni comunali che si sono succedute e che in questi 30 anni hanno portato avanti manifestazioni su Ugo, creando un riavvicinamento a che quel che aveva significato lui per quel luogo. Nel 2019, in particolare, vennero da me mentre ero sul set di “Ritorno al crimine”: mi chiesero di fare attività per ricordare Ugo in occasione del centenario della sua nascita e quasi non mi sembrava vero.

Per l’emozione?

Anche per la sorpresa. In Italia il tramando della memoria è sempre molto difficile, perché richiede anzitutto l’impegno delle istituzioni. Quando le istituzioni stesse si mettono in prima linea per proporti una cosa del genere, ti rendi conto che è successo qualcosa di davvero meraviglioso. Un privilegio enorme di cui sarò sempre riconoscente. È bello vedere il legame della comunità a Ugo.

A proposito di memoria, c’è qualcosa che ogni tanto ci si dimentica della carriera di tuo padre e che avrebbe meritato più attenzione dalla critica?

Forse i film dove è stato anche regista:“Il mantenuto”, “Il fischio al naso”, “Sissignore”, “Cattivi pensieri”, “I viaggiatori della sera”. Tutti film molto forti che raccontano bene la personalità di Ugo, perché hanno le sue caratteristiche di sarcasmo su deviazioni della società. Va detto, però, che lui spesso, attraverso le storie che ha raccontato, è stato premonitore di quel che sarebbe accaduto e il cinema spesso viene capito a distanza di tempo.

Anticipatore di tematiche e di mode in tanti campi direi.

Assolutamente e il bello è che lo faceva talvolta senza rendersene conto. Quel che vediamo fare a “Striscia la Notizia” o da alcuni cabarettisti di oggi è ripreso da quel che facevano lui e Vianello a “Un due tre”. Ugo è stato il primo alfiere della cucina italiana quando nessun uomo lo faceva: tutti lo prendevano in giro. Oggi vediamo che aveva ragione lui: addirittura direi che se esiste la cultura dell’impiattamento è anche grazie a lui, prima le pietanze si servivano sul vassoio. E aggiungo di più: le gare di Masterchef a casa nostra erano già presenti negli anni ’70, con tanto di votazioni, menù, cene al contrario che iniziavano con l’ammazzacaffè e finivano con l’antipasto…

Hai citato Vianello. Una volta Raimondo raccontò in tv che, anni dopo la famosa cacciata dalla Rai per aver preso in giro Gronchi, si ripresentarono davanti alla dirigenza fingendo di aver pronto qualcosa sul Papa Buono, con Ugo che accennò un’imitazione di Roncalli. Quanto c’è di vero e quanto di leggendario in questi ricordi?

Tutto vero. Ugo era così: nessuna leggenda popolare, il leggendario è tutto quel che non è documentato e di cui non si è mai fatta menzione. Ugo ha sempre usato l’ironia per fare critica sociale. E nel fare le cose si divertiva prima di tutto lui in prima persona, con l’obiettivo di fare ridere l’amico che stava con lui. 

L’anno prossimo saranno 50 anni di “Amici miei”. La zingarata più bella?

Dovendo scegliere direi che la supercazzola col vigile è forse la più memorabile, ripetuta anche da Noiret a un certo punto. È sempre difficile, tuttavia, fare classifiche in questo senso, direi quasi impossibile. È come quando mi chiedono il suo film più bello: Ugo ne ha fatti più di 150, come fai a decidere?

Mi fa ridere che lo chiami sempre Ugo e non papà.

Era diventato un gioco: la sua popolarità rimaneva talmente alta che, appena metteva piede fuori di casa, tutti lo chiamavano per nome e lui, sempre generoso, replicava girandosi immediatamente a salutare e fermandosi a chiacchierare con loro. “Ugo” era la parola a cui rispondeva al primo richiamo e non “papà”. Così, per avere la sua attenzione, anche noi figli lo chiamavamo anche noi per nome.

E con i pregiudizi sui figli d’arte come ti rapporti?

Non li ascolto nemmeno, esistono da quanto ho vent’anni: snobismi e ignoranza intorno all’argomento sono facce della medaglia del qualunquismo, ormai ci sono abituato.

Recentemente ti abbiamo visto nella serie“Call my Agent”in un divertentissimo ruolo di un obeso che viene ingaggiato nel ruolo di Cavour. Negli ultimi anni hai recitato in numerosi film: allora il cinema sta bene?

Non bisogna confondere: il cinema fa quel poco che si può fare, perché il problema in Italia da inizio anni ’80 è sempre l’assenza di una volontà a valorizzare il più grande patrimonio che abbiamo, ossia la cultura. Purtroppo è sempre importante la notorietà più che essere professionisti fino in fondo. 

Troppe piattaforme e poco cinema nelle sale?

Chiariamo, le piattaforme non sono il male: il male è non creare regole, non avere la volontà di creare un indotto e mantenere un punto di riferimento. Anche in questo senso allora il tramando della memoria diventa fondamentale per intercettare il pubblico. Non mi stancherò mai di farlo: anzi, ormai la mia principale attività è proprio nella gestione della Tognazza, dove sono ripartito dalla filosofia principale di Ugo per ricreare un percorso vitivinicolo diverso dai soliti schemi che di solito sono utilizzati.

Ecco, qual è la filosofia identitaria di Ugo per il nostro Paese?

La capacità di reinventarsi continuamente, in ogni campo, cercando il divertimento e lo stare bene. Lo scambio, la libertà di opinione e pensiero.

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