I pellegrini giungono a Roma cantando da 725 anni. Un rito per manifestare fede e pentimento con un viaggio che un tempo era rischioso
«I pellegrini si trascinano lungo la via, pregando. Finalmente, dalla vetta di Monte Mario, appare agli occhi ardenti e alle anime anelanti la città santa: Roma! Roma! Un inno di giubilo prorompe, e gli risponde lo scampanio di tutte le chiese». È questa la descrizione in esergo a «Il Giubileo», secondo movimento del poema sinfonico «Feste romane», composto nel 1928 da Ottorino Respighi (1879-1936).
Il racconto dell’arrivo dei pellegrini alla Città Eterna, attraverso la strada chiamata «Via Romea» – la via che porta a Roma i pellegrini, i «romei» – dipinge un quadro musicale di una città che oggi non c’è più, inghiottita dalle palazzine dei nuovi quartieri. I pellegrini infatti arrivano al Monte Mario, allora ultimo ostacolo prima dell’Urbe, cantando un inno per darsi la forza di percorrere l’ultimo tratto. L’indicazione agogica di Respighi è «doloroso e stanco»: il pellegrinaggio, fino a tempi recentissimi, è infatti un’impresa, non un viaggio di piacere. Non c’erano autostrade con autogrill e motel, non si prende il volo low cost. Si procede a piedi. Spesso scalzi, per povertà o ulteriore penitenza. Il viaggio a Roma per l’indulgenza plenaria non è una passeggiata.
Ma come nasce questa tradizione? Il primo Giubileo è stato indetto nel 1300 da papa Bonifacio VIII. L’idea del pontefice era di indire un anno santo sul modello biblico: il nome, infatti, viene da «jubel», il corno di montone usato dagli antichi Ebrei per indire il loro anno di perdono, ogni cinquant’anni (o più precisamente «sette settimane d’anni) in cui la terra era lasciata riposare dall’aratura, venivano liberati i servi, restituite le terre confiscate e riequilibrate le ricchezze e rimessi i debiti affinché non vi fossero persone troppo ricche o troppo povere. Più orientato alla salvezza dell’anima che dei corpi, quello cristiano era inteso come strumento di redenzione e remissione dei peccati. La Chiesa, depositaria del Tesoro della Grazia lasciata da Cristo e dai Santi, può elargirlo a chi mostra sincero pentimento per le proprie azioni, pensieri, parole e omissioni peccaminose. Il pellegrinaggio, con i suoi rischi e difficoltà, era fin dall’antichità e per tutte le religioni (pensiamo che per i maomettani il pellegrinaggio rituale alla Mecca è uno dei Cinque Pilastri della fede) uno degli strumenti considerati più efficaci per mostrare la propria determinazione a saldare i propri debiti verso il Cielo.
Faticoso, doloroso, rischioso, significava mettere l’anima al di sopra del corpo e dei beni materiali. Nell’Europa cristiana il pellegrinaggio era talmente importante che le strade erano dedicate più ai pellegrini che ai mercanti. Roma era circondata da una selva di torri – i cui nomi oggi punteggiano i quartieri-borgata delle periferie – che segnavano le stazioni di posta e di riposo nonché i luoghi in cui le guarnigioni pontificie davano riparo dai briganti ai viaggiatori. Dall’Urbe partivano le confraternite alla ricerca dei «poveri morti abbandonati nella campagna», i pellegrini che stramazzavano nell’ultimo tratto o che venivano uccisi dai banditi e restavano insepolti: nel centro, a via Giulia nella chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte o nell’ospedale della Santissima Trinità dei Pellegrini (dov’è morto Goffredo Mameli) ci sono ancora le vestigia di questa opera di misericordia corporale.
Si è molto malignato sulla «vendita delle indulgenze», con i proventi delle quali tuttavia la Chiesa ha costruito la magnificenza dell’arte che lascia a bocca aperta tutto il mondo, eppure il fedele che dal Medioevo fino ai primi del Novecento doveva venire a Roma metteva in gioco la sua vita terrena con la prospettiva della salvezza eterna.
Il viaggio a piedi era sfiancante. L’ultimo tratto, quando finalmente appare in vista «il Cupolone» era però di gioia. Il poema sinfonico di Respighi, qui cambia notazione: prima «Poco più mosso», poi «Allegro moderato», quindi «Allegro festoso». Il canto dei pellegrini, affidato ai legni dell’orchestra, improvvisamente viene accolto dallo scampanio delle chiese romane. È l’ultima tappa prima dell’agognata meta. Se nel 1928 Monte Mario è però già un quartiere di palazzine umbertine e Novecento, sulla via Aurelia la chiesetta della Madonna del Riposo deve il suo nome al fatto che su quella collina, a tre km scarsi dal Vaticano, ancora negli anni Venti i pellegrini potevano gettarsi sui prati, mangiare qualcosa alla «fraschetta» (oggi c’è un bar) in vista della possente cupola michelangiolesca. È fatta. Il maestoso rintocco del «campanone» di San Pietro annuncia loro che la meta è quasi raggiunta. Il poema sinfonico conclude il suo movimento però con una rinnovata solennità: a Roma si viene per chiedere perdono.
L’istituzione voluta da Bonifacio VIII infatti doveva servire come mezzo per i fedeli per ottenere l’indulgenza plenaria, ossia la remissione delle penitenze temporali necessarie per riconciliarsi con l’Onnipotente dopo aver commesso peccati. L’idea nasceva col suo predecessore, l’isernino Celestino V, che all’Aquila (città identitaria, fra parentesi) aveva istituito la Perdonanza, tutt’oggi principale ricorrenza del capoluogo abruzzese. Era un rito collettivo attraverso il quale si poteva manifestare la propria volontà sincera di pentimento e la richiesta d’assoluzione. Con il Giubileo l’Urbe resa sacra dal sangue dei Martiri e tomba dei principi degli Apostoli, Pietro e Paolo, diveniva meta centrale di tutti i cristiani. C’era anche una logica politica nella scelta di Bonifacio VIII: ribadire il primato di Roma per tutta la Cristianità.
Così Roma si riempie di pellegrini (Dante riferisce che a Ponte Sant’Angelo fu necessario regolamentare… il senso di marcia dei romei!). Il primo Giubileo fu stabilito ogni cento anni, ma i papi successivi lo portarono prima a 50 poi a 25 anni. A partire dal 1423 (ritorno della sede papale a Roma dopo la cattività avignonese) vengono istituiti anche i Giubilei straordinari, spesso proclamati per l’elezione pontificale o per motivi non comuni, come l’invocazione della pace europea nel 1745 durante la Guerra di Successione austriaca o quello del 1933, diciannovesimo centenario della Redenzione.
La musica ha sempre sottolineato questo evento del mondo cattolico. Durante i lavori di preparazione del Giubileo del 1600, papa Clemente VIII ordinò di costruire alla Basilica Lateranense un organo senza pari in Europa. Inaugurato nel 1599, lo stesso pontefice volle visitarlo personalmente ed ascoltarne ogni singolo registro. Significativamente, la sua consolle non si trovava rivolta alle canne, ma era rivolta verso l’altar maggiore: l’organista suonava ad maiorem Dei gloriam, non per sé.
Prima del «Vaticano II» però non esisteva la pratica di scrivere «inni ufficiali» dei giubilei, essendo la Chiesa meno impegnata nel marketing e più nell’evangelizzazione. Non ce n’era neppure bisogno, visto che la produzione musicale sacra era imponente e solenne. Il popolo, poi, ben sapeva cantare (il poema sinfonico di Respighi s’apre coi pellegrini che intonano un inno camminando, infatti) e anche quando era analfabeta capiva ciò che cantava, pure se in latino. «La musica è insita alla liturgia in modo assoluto» spiegava il compositore Domenico Bartolucci (1917-2013): «buona musica fa buona liturgia». Negli ultimi decenni, i risultati musicali sono invece alquanto più modesti, nonostante la partecipazione di compositori famosi come Ennio Morricone, che ha firmato l’inno giubilare per il 2000, un brano molto figlio dei tempi. Difficilmente entrerà nei libri di storia della musica anche l’inno composto per questo Giubileo, «Pellegrini di speranza», pienamente inserito nel solco della musica postconciliare. La perdita di solennità di «un popolo sempre più istruito ma meno educato» (definizione che rubiamo sempre a Bartolucci) si riflette anche nella ritualità del Giubileo: la Porta Santa, dal 1975 (quando dei calcinacci rischiarono di colpire papa Montini) non viene più aperta con la demolizione, ma spinta sui cardini, fino alla recente inaugurazione in cui Bergoglio si è limitato ad assistere all’apertura da seduto. Del resto, il pellegrinaggio giubilare a Roma non è più l’impresa di una vita, ma un viaggio turistico e i visitatori giungono a Fiumicino con le cuffiette dell’I-pod nelle orecchie, non cantando sulla polverosa Via Romea. Ma, considerando la differenza fra un inno seicentesco e un moderno brano dei Symbolum ’77, anche meglio così.