Sergio Leone è uno dei simboli identitari del X Festival delle Città Identitarie, a Pomezia, visto che è stato sepolto proprio qui, nel piccolo cimitero di Pratica di Mare. Ma perché il grande regista romano ha chiesto di venir tumulato in questo borgo della Pianura Pontina? L’abbiamo chiesto a Carlo Verdone, uno dei mostri sacri del cinema italiano, che conosceva bene Leone. E che è stato testimone diretto del momento in cui Sergio Leone scelse Pratica di Mare come ultima tappa del suo viaggio.
Carlo, secondo te perché Leone ha chiesto di essere sepolto lì?
«Questo non lo saprei dire. Io so soltanto che una mattina passò sotto casa mia e mi disse: “Andiamoci a mangiare il pesce a Pratica di Mare”. Scendo in macchina con lui e chiacchieriamo del più e del meno… arrivati a Pratica di Mare però Sergio fece una conversione ed entrò nel cimitero. Gli chiesi: “ma ‘ndo stamo a annà, ar cimitero?”, “sì, ar cimitero” rispose. “Ma er ristorante?”. “Dopo”. “Ma che dobbiamo fa’ ar cimitero?”. “Me devi aiuta’ a sceje la tomba”. Allora siamo entrati, ma io non capivo bene. Una tomba… ma per chi? Sergio comincia a guardare la serie dei fornetti, alcuni avevano lateralmente vista al mare, altri una vista con cipressi e i pini. E in quella mi fa: “Secondo te è più bella ‘sta parte, quella del mare, oppure ‘sta parte qua, dove c’è il verde e c’è più ombra…”. Io gli domando: “ma scusa, per chi è ‘sta tomba?”. E lui: “è per me”. “E vabbè – sbotto – ma porca miseria! Ma che stai a pensa’?”. “No, no… bisogna pensarci prima” mi risponde Sergio. A quel punto però gli faccio notare che qui al cimitero sono tutte tombe occupate. “Ma tu c’hai una tomba di famiglia?”. “Eh… quarcuno lo spostamo”. “Ma come lo spostamo!?”».
Il dialogo surreale fra Leone e Verdone va avanti. Alla fine Leone gli indica un fornetto in alto, a un angolo di un colombario, l’ultimo a sinistra. Quello sembra piacergli, anche se era occupato. Verdone lo asseconda: «“Che ti devo dire, Sergio? – gli rispondo – Forse la vista mare è meglio…”. E Leone: “Pure secondo me, anche se però d’estate il caldo è potente, entra tutto…”. A quel punto gli faccio: “ma che te frega, tanto sei morto!”. E lui “no, no, è importante… è più poetica la vita mare”. “E pijate la vista mare…”. Fosse quello il problema! Gli ricordo che in quel fornetto c’è già uno, che non è manco morto da tanto tempo… “Come fai a spostare un morto?”. E Leone… “Ma sì, lo faccio sposta’… Conosco qualcuno…”».
In quella i due escono, finalmente vanno a mangiare il pesce e a parlare di cinema. Verdone si chiede se il suo mentore sia ammattito. E invece… «Ho parlato anni dopo con la figlia di Sergio, Raffaella e lei m’ha detto che Sergio è realmente sepolto là, in quel fornetto. Non mi chiedete che fine ha fatto quello che stava là, sicuramente avranno parlato con la famiglia…”».
Che anno era?
«Probabilmente il 1985, prima di “Troppo forte”. Lui viveva questa cosa della tumulazione come se dovesse scegliersi un attico, forse era per esorcizzare un po’ la morte”».
L’hai detto in tante interviste: devi molto a lui perché ti ha prodotto i tuoi primi film. Come è stato l’incontro con Sergio?
«Un incontro inaspettato. Mio fratello Luca aveva scritto un saggio su Sergio Leone, quindi era entrato in contatto con lui. Un giorno gli aveva chiesto: “Ma quello che si vede in televisione la sera, che si chiama Verdone, è un tuo parente?”. “È mio fratello…”. “Damme er nummero che lo voglio chiamare, perché mi è uno che mi fa ridere”. Qualche settimana dopo Leone mi chiamò. Io con credevo alle mie orecchie. Era un regista che amavo molto, avevo visto tutti i suoi film western alcuni anche quattro volte, tipo “Il buono, il brutto, il cattivo”. Mi disse di andare alla sua villa all’EUR. Era un tipo autoritario, silenzioso… mi scrutava senza dir nulla. Mi fece venire un gran sudore freddo, perché metteva soggezione… Quest’uomo, con la barba, il caftano lungo, che mi fissava… E a un certo punto disse: “Io devo ancora capi’ perché me fai ride…”. Io non sapevo che rispondere. Mi ordinò di tornare il giorno dopo, che nel frattempo avrebbe letto il soggetto che mi ero portato dietro. L’indomani mi chiamò: “Vieni che ne parliamo”. Io gli chiesi subito: “Ti è piaciuto, ti fa ridere?”. E lui: “No. Fa piagne”. Però rompe ogni indugio: “Cerchiamo di fare un film – dice – Sì, bisogna fare un film, dobbiamo cercare il regista adatto per te, perché credo in te”. Da quel momento mi porta letteralmente in giro a cercare il regista adatto: andammo da Lina Wertmüller a Gigi Magni a Dino Risi… abbiamo fatto la Via Crucis di tutto il cinema italiano. Ma tutti dicevano la stessa cosa dopo aver letto il soggetto: “C’è un mondo tutto suo e noi non possiamo dirigere uno che ha le idee molto chiare su quello che vuole e che vuol fare personaggi che sono del tutto suoi”. Furono molto onesti. Alla fine, l’unica soluzione era far dirigere il film a me. Quindi per molti mesi frequentai casa Leone: una parte della giornata era dedicata alla scrittura della sceneggiatura e una parte era dedicata alla regia: tecnica delle riprese, geometria delle inquadrature… come che io un po’ conoscevo, perché avevo fatto il Centro Sperimentale di Cinematografia. Ma con lui è stato diverso: è stato più che un insegnante, è stato un vero e proprio mentore, un vero allenatore».
E quindi nasce “Un sacco bello”…
«Sì. Costò quattro soldi, se non ricordo male 360 milioni, un niente… Però incassò quasi 2 miliardi e 700 milioni, che per un esordiente nel 1980 era tantissimo».
Con Leone hai avuto anche qualche litigata, sul set o mentre discutevate di un film?
«Ce ne sono stati tante, quella più famosa è sul set di “Un sacco bello”. Durante le riprese della scena della telefonata a mia madre. Dovevo dirle che non sarei andato a Ladispoli, perché avevo la spagnola [Marisol, NdR] dentro casa. Lui voleva che io fossi teso e nervoso, perché la spagnola era lì in casa mia e io m’ero pure fatto l’idea era pronta ad avere un rapporto con me… e io dovevo dire una bugia a mia madre che non potevo andare in giornata, sarei andato l’indomani a portare quel famoso olio a Ladispoli… Peraltro, mia madre non la sentiamo per telefono, però intuiamo che sta là a pungere sempre il figlio: “ma perché, perché, perché… che c’è che non puoi venire? chi c’è dentro casa? che ci sono le donne?”. E a quel punto io gli replico: “Ma perché non ci posso avere una donna io?” e finalmente mi ribello a questa madre dittatoriale. E dunque, Leone voleva che questa telefonata la facessi paonazzo, mentre grondavo di sudore. E mi disse: “Fatte tre giri di palazzo…”. Io gli risposi: “Ma che te sei impazzito? Oggi so’ 38 gradi e me fai fa’ tre giri di palazzo…”. Tutta Tor de Nona, che era un edificio lunghissimo, gli dico; “M’ammazzi”. E lui: “No. Devono esse tre giri de palazzo, sennò nun te viè er sudore. Oh, guarda che stamo a fa’ er cine, nun stamo a fa’ er circo”. E a quel punto mi dissi “mò faccio finta…”, scesi le scale di casa, arrivai giù, dissi “ma senti che caldo, Sergio è matto…”, era una giornata torrida. Mi feci avanti e indietro le scale una decina volte, poi suonai il campanello e accentuai un po’ il fiatone, dissi “pronti”. Lui mi guardò, non è che di sudore ce ne avessi proprio tanto… Diede il “motore!”, poi “azione!”… manco riesco a prendere il telefono per fare la scena, che in campo arriva una mano… la mano di Sergio Leone con tutto l’anello, che mi dà una pizza in faccia con una violenza. Un’umiliazione, di fronte alla troupe… E mi dice: “A stronzo, tu i tre giri de palazzo null’hai fatti”. E io cercai di rispondere: “Vabbè, ma cerca anche di capire…”. “No, no, no – gridò – NU’ STAMO A FA’ ER CIRCO! STAMO A FA’ ER CINEMA!”. Mamma mia… E io a quel punto mi arresi e ho fatto questi tre giri. Arrivai veramente senza un filo di fiato e riuscii finalmente a fare questa scena, che venne benissimo”».
È stato è stato insomma un grande maestro…
«Queste cose qua alla fine servono sempre per capire l’abnegazione che deve avere un attore nel seguire le direttive del regista. Quella scena la voleva girare lui: quindi se te lo dice Sergio Leone, ci devi stare: l’occhio ce l’ha, quindi tutti i torti forse non ce li aveva… era più la pigrizia mia di non voler fare i tre giri di palazzo, che mi sembravano assurdi. Però alla fine aveva ragione lui e quella scena è venuta molto bene».
Secondo te qual è la lezione più grande che lascia Sergio Leone come regista?
«Innanzitutto è stato rivoluzionario dal punto di vista del montaggio, del movimento della macchina e dei dettagli enormi, i macro zoom, lenti, lenti, inesorabili. Ci ha dato una tecnica dell’inquadratura assolutamente rivoluzionaria, in particolare per la lentezza con la quale si svolgeva tutto. E quella lentezza poi la recuperava con la rapidità nel montaggio. Poi il sonoro. Certo, la musica era grandiosa, era perfetta, con Morricone. Ma c’erano anche i rumori e gli effetti speciali, che erano magnifici. In “C’era una volta il West”, la sequenza con l’attesa dell’arrivo del treno con Jack Elam e Jason Robards che aspettano Charles Bronson per ammazzarlo… e mentre aspettano il treno si sente il cigolare delle pale del mulino, si sente una mosca che ronza, c’è sempre il rumore del vento che dà l’idea del torrido… Ecco questo accentuare gli effetti speciali è importante esattamente come la colonna sonora di Ennio Morricone. È stato veramente un rivoluzionario, perché nessuno aveva reso gli effetti speciali così alti, che però avevano il loro senso: c’era il silenzio degli umani e c’era invece la voce degli oggetti».
Drammaturgia pura:
«Assolutamente. Aveva un grande senso del ritmo; sceglieva bene gli attori; non ha mai sbagliato un protagonista: Clint Eastwood era perfetto, Eli Wallach era perfetto, Lee van Cleef era perfetto…».
E tu hai ripreso un attore da Sergio Leone?
«Ho preso Mario Brega, che faceva il “cattivo” nella banda di Gian Maria Volonté in “Per qualche dollaro in più”. Era il violento, era quello che menava. Lo vidi arrivare a casa di Sergio, un giorno che tornava dai Mercati Generali. Aveva cassette coi carciofi, la frutta, i peperoni, le arance, le mele… “A Sergio, tiè, è tutta robba fresca, viè dai Mercati Generali, viè proprio da Fondi, so arivati stamadina alle 5, a Sergio!”. Mi dico: “questo è perfetto per fare il padre del bambino di Dio”. Ebbi così l’intuizione di scegliere Mario Brega di portarlo sul piano della commedia. Io credo di aver utilizzato probabilmente gli ultimi due caratteristi del cinema italiano: Mario Brega ed Elena Fabrizi. Volendo ci possiamo anche mettere anche Angelo Infanti, anche se non era un caratterista. Però con me è lo diventato, col suo personaggio di Raoul, in “Bianco, rosso e Verdone”, che fa il provolone con la povera Magda, o anche il mitomane megalomane in “Borotalco”, dove era perfetto. Questi attori saranno ricordati sempre per quei personaggi».
Carlo, com’è il tuo rapporto con Pomezia?
«A Pomezia sono molto legato, ci sono sempre passato andare in vacanza ad Anzio o a Sabaudia, e ho tanti amici sparsi per l’Agro Pontino. Quindi è una mia zona del cuore. Grazie dunque a voi, al Festival delle Città Identitarie e un saluto a tutto il pubblico di Pomezia».