Enzo Decaro è uno degli attori italiani più amati per la sua professionalità, per il suo garbo, ma anche per ironia, schiettezza, cultura e umanità. Non è vero ma ci credo di Peppino De Filippo è solo la sua ultima fatica teatrale, appena conclusa al Teatro Manzoni di Milano dopo quattro anni di una tournée, nata anche nel rispetto del suo amico e maestro Luigi De Filippo, che voleva fortemente il ritorno di questo spettacolo sui palcoscenici italiani e a cui è dedicato lo straordinario successo incontrato ovunque. Un trionfo che continua a coinvolgere Decaro a teatro, già pronto alla prossima stagione.
La storia vede un imprenditore allontanare un dipendente che considera porti sfortuna, assumendo al suo posto un ragazzo ingobbito. Una volta scoperto che la gobba era solo un espediente inventato per accattivarsi le sue simpatie, riprende con sé il dipendente cacciato e lascia sposare alla figlia il falso gobbo che, pur non piacendogli, aveva nel frattempo portato fortuna alla sua azienda.
Enzo, cosa rappresenta questo spettacolo per te?
Prima di tutto è un’occasione importante per riportare a teatro una commedia di De Filippo, che è parte integrante della cultura italiana. La soddisfazione più grande è di regalare al pubblico una sensazione di felicità per essere usciti di casa a vedere qualcosa di piacevole, senza farsi troppe domande e facendosi catturare nell’attenzione e nel divertimento.
Poi però c’è anche un tema di fondo più che mai interessante.
Certo, è possibile che chi ha voglia di approfondire quello che ha visto unicamente divertendosi, alla fine rifletta sulle esasperazioni mentali umane, mai positive. Le voci che si mettono in giro per scaramanzia non vanno considerate un gioco. Ciò che è falso va evitato: dovrebbe essere una regola. In questo periodo siamo tutti, a turno, vittime di fake news, che possono fare danni enormi e per le quali, purtroppo, nessuno si prende mai davvero la responsabilità delle conseguenze.
Tu, Troisi e Arena eravate “La Smorfia”, riferendovi a un atteggiamento tipico napoletano. La superstizione è un gioco o una credenza da superare?
La superstizione è un gioco, finché non diventa cattiveria nei confronti di terzi.
Hai vissuto esperienze dirette nel campo dello spettacolo?
Non sulla mia pelle. Quando non si poteva pronunciare il nome di Mia Martini restavo scandalizzato ogni volta: un’artista incredibile come lei si vide dimezzare i testi, la nomea si diffuse a macchia d’olio anche pubblicamente, facendole gravemente del male. Il confine tra l’ignoranza e la superstizione è molto sottile e non va mai superato. Una cosa è credere in piccoli portafortuna, un’altra è pensare male di una persona e fare in modo che questo diventi una convinzione di tutti.
La tua scaramanzia legata allo spettacolo?
Un abbraccio e una stretta di mano prima di ogni spettacolo. Sono un napoletano atipico, perché faccio tutto quello che il galateo della scaramanzia non vorrebbe: adoro i gatti neri, passo sotto le scale, appoggio il sale sul tavolo, amo il colore viola. Insomma, provoco la “disperazione” di familiari e colleghi, ma ammetto che questo atteggiamento mi ha aiutato spesso ad affrontare con più disincanto le traversie della vita.
In questo spettacolo avete riadattato la storia agli anni ’80, ossia nell’epoca di una Napoli rigogliosa, artisticamente e sportivamente: a che punto è oggi Napoli?
Sportivamente quest’anno è meglio soprassedere! (ride, ndr) C’è una sorta di magma culturale, insito nella città, che continua a dare i suoi frutti. Merito di un atteggiamento estremamente inclusivo, che da sempre non oppone ma fa coesistere con rispetto grandi differenze sociali. Napoli negli anni ’80 ha saputo fare esprimere al meglio le più alte vette di ingegno artistico e culturale, contrastate all’abisso più grande di ignoranza. Luci e ombre che rendono ancora oggi Napoli una città speciale, variopinta ma senza contrasti acerbi.
Però qualche fazione si è creata anche a Napoli.
Certo, anche musicalmente c’era chi ascoltava Nino D’Angelo e chi Pino Daniele, artisti completamente diversi tra loro. Ma la caratteristica sempre viva è che nessuno si è mai preoccupato di danneggiare l’altro rendendogli difficile il cammino.
Il teatro, dopo il Covid riemerso in tutta la sua forza ovunque, è un punto identitario di Napoli che da sempre crede nel palcoscenico. E il cinema invece, come si potrebbe rilanciare dalla crisi?
Bisogna fare una distinzione, tra le produzioni e le sale cinematografiche. Credo che il pubblico non abbia mai visto così tanti film come in questo periodo: sono cambiati i luoghi, con le piattaforme che hanno ormai preso il monopolio. La crisi però è solo delle sale, perché anche quest’anno, come nel 2022 con È stata la mano di Dio (regia di Sorrentino, con lo stesso Decaro nel ruolo di San Gennaro), un film italiano è arrivato nella cinquina dell’Oscar, andando vicinissimo a vincerlo. Ci sarebbe casomai da aprire un discorso di politica del cinema da rivedere…
Apriamolo.
Da qualche anno si è creato una sorta di “reddito di cittadinanza” per fare lavorare un po’ tutti, compresi quelli che col cinema non c’entrano nulla. Eppure non siamo messi così male per pescare in altri campi. Purtroppo, però, talenti e idee spesso vengono sopraffatte, annegando in un mare di burocrazia assistenzialista: il cinema invece dovrebbe vivere solo di meritocrazia. Quando c’è un talento automaticamente si alza il livello lavorativo del settore, mettendone in moto ulteriori produzioni. Ma a volte non si è puntato sul talento…
La causa qual è?
C’è stata una visione sbagliata della politica, che anziché investire su scuole di recitazione si è preoccupata di spargere fondi senza costruire nulla: così sì che si rischia una mediocrità che non porta né occupazione né pensiero. Laddove non gira pensiero non gira nulla: le città più fiorenti sono quelle dove c’è innovazione. Napoli e Milano sono molto più simili di quanto non si immagini, perché credere nel teatro significa dare spazio a un’identità imprenditoriale. C’è un concetto basilare che la politica si è dimenticata…
Quale?
Il cinema deve essere difficile, deve essere talento: non può essere facile, non può essere fatto da tutti. I suoi risultati stanno nelle difficoltà. Abbiamo prodotto talenti che fanno scuola nel mondo: abbandonando tanta burocrazia, con sostegni concreti allora saremmo davvero al top.
Qual è l’identità cinematografica dell’Italia?
La sua originalità camaleontica. Nel corso degli anni abbiamo saputo esprimere sempre diverse novità. Non siamo omologati: l’Italia ha nel DNA di osare qualcosa a cui non si è pensato fino a quel momento. Così nelle varie epoche tutti hanno avuto una propria scintilla.