ABBONATI A CULTURAIDENTITA’
Colpisce il ritratto a penna BIC e matita al Maestro del cinema western
Iggy Pop: “Che pena mi fanno quei coglioni che si affumicano il cervello e i bronchi. Non hanno forza di volontà.”
Tom Waits: “Sempre col ciuccio! Sai cosa? Il bello è che quando si smette è che… è che avendo smesso, posso anche fumarne una. Perché ho smesso.”
E’ una parte del celeberrimo dialogo fra i celeberrimi Iggy Pop e Tom Waits dell’altrettanto celebre film “Coffee and Cigarettes” di Jim Jarmusch e chissà cosa direbbe Sergio Leone, che in quest’opera di Daniele Folegatti vediamo col sigaro in bocca, anzi col “ciuccio” e la Colt in mano mentre sullo sfondo si erge la corda dell’impiccato (ma non è “Impiccalo più in alto”).
Se il cinema è la settima arte, allora in Daniele Folegatti l’unione col disegno fa la forza. E che forza. Lui ha tributato anche il grande John Carpenter e il suo “La cosa”, Spielberg e il suo E.T. e si tratta di molto di più di un sia pur amorevole riconoscimento: andateli a vedere, dopo questo Sergio Leone. Ogni tributo è un’allegoria, che è in tutto e per tutto un messaggio, come nella cara e vecchia pittura del XVI secolo studiata da Erwin Panofsky, al punto che anche con Folegatti, fatte le ovvie e debite proporzioni, ci vien da scomodare quella disciplina inventata dal summenzionato critico d’arte, l’iconologia. Iconologia: immagine e messaggio. Nello Spielberg di Folegatti chi come noi bambino ha quasi pianto quando il protagonista Eliot inforca la sua BMX e vola davanti alla luna con E.T. dentro la cesta, non potrà che provare una sensazione di comunione laica guardando quel disegno di Folegatti: sì Jurassic Park e tanto altro, ma noi che sappiamo abbiamo visto subito il manubrio di quella BMX disegnata che Spielberg stringe fra le mani.
E tornando al grande Sergio Leone: per restare nel territorio del cinema, qui ci vorrebbe un bel commento di Umberto Lenzi, che con lui condivide una sorta di patronimico cinematografico, è il papà del poliziottesco all’italiana, mentre Leone è il papà degli “spaghetti western”. Perché qui non ci vuole un commento precisino, la recINZione in critichese, qui siamo nel pop più vero del termine: fumetto, illustrazione, graphic novel e quindi (anche) libri per tutti (e per nessuno), qui ci vuole un altro grande a commentare l’opera di Folegatti, Angelo Bernabucci, il caratterista famosissimo e sconosciutissimo, trash e all’amatriciana anche se nessuno sapeva che di mestiere faceva il libraio.
Il Sergio Leone di Folegatti ci guarda sornione attraverso quegli occhiali dalla montatura tardi anni Sessanta che fa tanto PPP, è addobbato con un carico che sembra il cinturone di un messicano cattivo (nel senso del ruolo dei cattivi, speriamo di non essere intercettati dalla psicopolizia del politicamente corretto) e la corda dell’impiccato disegnata dietro di lui ci fa pensare che lì dentro a infilarci la testa dovrebbe essere proprio Eli Wallach de “Il buono, il brutto e il cattivo”. Il Sergio Leone di Folegatti ha lo sfondo azzerato, bianco che più bianco non si può, perché a parlare è il nero dei dettagli, il chiaroscuro a penna BIC e matita, che fa parlare il grande Sergio Leone: ci ficca gli occhi addosso, la nuvola di fumo che esce dal sigaro e sembra dirci “Giù la testa, coglione”.