Lavorare meno, produrre di più. E vivere meglio

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In Italia, sicuramente più che nella maggior parte dell’Occidente, abbiamo un’organizzazione del lavoro inefficiente e anacronistica. Il lavoro è ancora inteso come “luogo”, anziché come “attività”. Il merito del lavoratore è valutato in base alla cessione del proprio tempo anziché alla produttività. Al minutaggio anziché al conseguimento di reali obiettivi.

Il posto di lavoro è di fatto un luogo di temporanea detenzione. Se così non fosse non esisterebbero i “furbetti del cartellino”. Non c’è nulla di più avvilente che vedere i capannelli di dipendenti assieparsi in prossimità dei tornelli e aspettare lo scoccare del minuto esatto per poter timbrare l’uscita. Come una volta gli occhi degli alunni si fissavano sull’orologio della classe contando gli ultimi minuti  che mancavano al suono della campanella.

In quasi tutte le aziende pubbliche e private permane una rigida ripartizione dei ruoli tra produttori e sorveglianti: supervisori che vigilano dall’alto, manager che “gestiscono” le “risorse umane”,  distribuiscono i compiti e ne giudicano l’operato. Si tratti di capi area, capi settore, dirigenti, direttori o manager, sono loro che fisiologicamente si prendono i meriti quando l’azienda va bene e fanno pagare i propri errori eventuali agli appartenenti alla fascia di fatto inferiore per garanzie, tutele e riconoscimenti, ma generalmente formata da persone con competenze specifiche necessarie alla effettiva realizzazione del prodotto.

Nella gerarchia del lavoro, non è la produttività che quantifica il merito, ma le capacità politiche di relazione con i livelli superiori e la capacità di gestire il lavoro altrui.

Nella lettura ottocentesca, ciò che alienava dal lavoratore il profitto del proprio lavoro era la mancanza del possesso e del controllo dei mezzi di produzione; nella società post-industriale questa visione è parossistica. Ciò che distanzia maggiormente il produttore (dipendente o non) dal godimento del frutto del proprio lavoro è la burocrazia: quella interna alle organizzazioni e alle aziende e poi quella istituzionale dello Stato. La burocrazia, oltre che consumare parassitariamente larga parte della ricchezza prodotta da chi “opera”, ricalca in grande parte la funzione dell’Ufficio timbri di cavouriana memoria, che non serviva  a “fare” qualcosa, ma ad esercitare il potere di “non far fare”. Molte aziende private ancora adottano, per incapacità di visione dei manager, il modello fallimentare della pubblica amministrazione: un modello “cinese” di appiattimento delle performance su una media al ribasso, che non premia la creatività e non lascia posto  alla auto-responsabilizzazione e auto-organizzazione.

La cultura del lavoro italiana è stata molto restia ad accogliere il concetto di telelavoro o lavoro a distanza, percepito come una diminuito della dignità professionale, una marginalizzazione ed un allontanamento rispetto al fulcro dell’attività che, nel grande come nel piccolo, è e rimane “il Palazzo”, il luogo in cui si può interagire con chi conta, farsi vedere e farsi notare. In questa visione è più importante stare otto ore seduto in una stanza a fare il minimo indispensabile, piuttosto che andare a cercare opportunità per l’azienda e portare effettivi risultati. Al lavoratore non si chiede di mettere a disposizione la pluralità di capacità che ormai ognuno nel mondo attuale possiede, ma di identificarsi con una mansione tassellare nel meccano della organizzazione.

Paradossalmente, se hai una “skill”, cioè se sai fare qualcosa, c’è subito un manager che ti mette a fare quello e solo quello, che insieme a tante altre cose lui (o lei) non sa fare, riservando a sé il ruolo di distribuire e i compiti e trarre lustro dal lavoro del gruppo. Come ai tempi del servizio militare, non conviene mai dichiararsi capace di svolgere un particolare compito né meno che mai offrirsi volontario… Il rapporto con l’azienda è ancora “tu fai questo” e  “si fa così”. Un tempo, in cambio si otteneva la prospettiva di una mediocre stabilità, che ti accompagnava con un contratto a tempo indeterminato fino alla pensione, dunque ad una garanzia di sopravvivenza anche dopo l’uscita dal mondo produttivo. Questo era possibile anche perché l’economia, delle aziende come degli Stati, era legata a fattori di crescita esigui, lenti ma apparentemente costanti e garantiti, salvo eventi catastrofici come le guerre. Ora tutto ciò è definitivamente e irrimediabilmente scomparso. Il sistema bancario, che per sua natura è più lungimirante di altri nella sapiente gestione delle risorse economiche e nel risparmio, ha saputo approfittare della informatizzazione per ridurre le spese e aumentare i profitti.

A causa dei traumatici cambiamenti di vita provocati dall’allarme contagio nella recente pandemia, anche il settore pubblico e molte aziende private hanno dovuto attrezzarsi con cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e nell’utilizzo delle risorse umane che hanno evidenziato palesi vantaggi economici. L’utilizzo estensivo del telelavoro infatti, assicura maggiore reperibilità,  riduce drasticamente l’incidenza del ricorso agli straordinari, lega il lavoratore al raggiungimento di obiettivi anziché alla presenza in ufficio. Un notevole risparmio deriva proprio dal non utilizzo di luoghi permanenti destinati al lavoro collettivo. Ma non c’è solo il punto di vista delle aziende e i calcoli contabili sulle minori spese e sui risparmi, che comunque liberano risorse che possono anche essere usate in modo virtuoso, con una equa ridistribuzione tra i dipendenti, o con investimenti volti a migliorare le dotazioni tecnologiche, o nell’innovazione delle procedure e dei mezzi.

Siamo forse pronti a riconsiderare la qualità della nostra vita professionale e relazionale, a realizzare il sogno del “lavorare meno” – ma producendo di più – e “lavorare tutti” senza dover per questo rinunciare agli aspetti che rendono la nostra esistenza veramente umana, rinunziare alla genitorialità e alla vita familiare o a coltivare la nostra creatività e le nostre passioni?

Negli ambienti economicistici e imprenditoriali già si afferma da settimane – forse in un mantra che spera si tratti di una previsione autoavveratasi –  che il lavoro a distanza (ma chiamiamolo smartwork, perché così fa più moderno e figo) è destinato a diventare una soluzione permanente e in crescita anche in Italia. Forse è il nostro destino. I romani dicevano che il Fato accompagna chi va volitivamente nella sua direzione e trascina chi invece vi si oppone. Come tutte le lezioni antiche, è una lezione da prendere in seria considerazione.