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Il 14 agosto 2018 alle 11.36, sotto un forte temporale, cedette uno strallo, un boato incredibile durante il nubifragio segnò per sempre la città di Genova: era crollata una parte del ponte Morandi portando con sé auto e camion con un salto di 45 metri d’altezza. Una tragedia in cui persero la vita 43 persone fra gli automobilisti che transitavano e tra gli operai presenti nella sottostante area.
Le famiglie dei 43 morti per il crollo del 2018 temono l’ennesima prescrizione al processo
Quella mattina solo il calendario si ostinava a segnare il 14 agosto. Impossibile cogliere che il cielo stesse già piangendo a dirotto, che i tuoni su Genova fossero in realtà urla di dolore e di rabbia. Lo si è capito alle 11.36, quando è crollato il Ponte Morandi.
I primi lanci dei siti di informazione, le prime edizioni straordinarie dei tg locali hanno sconvolto i genovesi spiegando che a sparire nel vuoto era stato il “ponte di Brooklin”. Lo chiamavano tutti così, più che con il nome dell’ingegnere che lo aveva disegnato, per quelle campate un tempo avveniristiche, per quegli stralli che sembravano poter sorreggere il mondo e che invece si sono sgretolati come sabbia.
Fin da subito è apparso chiaro che un minuto dopo l’altro la conta delle vittime sarebbe stato un tragico aggiornamento continuo. E’ stato così, purtroppo. Negli ospedali cittadini, i messaggi in codice, avvertivano il personale di tenersi pronti a fronteggiare un altissimo numero di feriti. Non è stato così, purtroppo. A parte alcuni, incredibili casi, tutti coloro che sono stati inghiottiti da quel crollo, non hanno avuto scampo.
Quarantatré vittime. Famiglie che stavano correndo felici verso una vacanza, operai che andavano al lavoro, bambini e adulti. Tante storie diverse, tante vite cancellate da una tragedia che ha fatto il giro del mondo. Il ponte progettato dall’ingegner Morandi era un simbolo della Genova del boom, realizzato tra il 1960 e il 1967, aveva conquistato la copertina della Domenica del Corriere. In pochi minuti è diventato la copertina di una vergogna che grondava sangue.
Il processo per stabilire le cause del crollo è in corso. Sotto accusa ci sono i vertici di quella che fu la Società Autostrade per l’Italia del gruppo Atlantia, controllato dalla famiglia Benetton. Dirigenti finiti alla sbarra e tutti sostituiti. La perizia dell’accusa indica senza esitazioni che la principale responsabilità è quella della mancata manutenzione. Registrazioni, intercettazioni, documenti inizialmente scomparsi e poi recuperati, raccontano la consapevolezza della situazione di pericolo, ma anche e soprattutto il tentativo di nascondere, di rinviare il problema, di provare a risparmiare per aumentare gli utili.
Questi sono i capisaldi della ricostruzione fatta dai pm con perizie certosine. Da quel momento in Liguria sono scattati controlli a tappeto in altri viadotti e gallerie, è stato paralizzato il traffico perché improvvisamente i tecnici del ministero incaricati di sorvegliare e garantire la sicurezza delle autostrade, hanno iniziato a controllare per garantire la sicurezza.
Il ponte era già crollato. Quarantatré vite erano già state spezzate. Ora resta un maxiprocesso, già iniziato con l’incubo che l’enorme mole di lavoro possa portare verso il rischio della prescrizione. L’immagine di Roberto Bernabai è quella di quel 14 agosto 2018. Anzi no, è quella che continua a rappresentare la tragedia del ponte Morandi. Con le urla di rabbia e di dolore, con il sangue che non si cancella. Con Genova che non dimentica.