Gabriele Lavia, uno degli ultimi grandi maestri della scena teatrale arriva a Re Lear. Dopo il debutto come attore in un mitico allestimento di Giorgio Strehler di cinquant’anni fa, adesso è lui a indossare scettro e corona di questa monumentale opera shakespeariana. Si può ammirare al Teatro Argentina di Roma fino al 22 dicembre. La catastrofe cosmica appare fin dall’inizio dello spettacolo andare a braccetto con la sua dimensione, comica, grottesca, carnevalesca, meta-teatrale. Odoriamo tutti di mortalità, siamo finiti, la carne è malata e il figlio è visto come un disagio dal punto di vista del Re, del sovrano; un re che non regge più il suo regno. Lear è il dramma dell’eccesso, del delirio, del passaggio del limite, dello sconfinamento mentale degli uomini sotto “questa tenda nera del circo-mondo” come amava dire Giorgio Strehler. L’eccesso di pathos ti fa diventare pazzo, osceno, incredibile agli occhi dei tuoi sudditi. Il vecchio maledice e precipita e Lavia fa precipitare anche la scenografia di questo teatro abbandonato che sconfina tra platea e palcoscenico con un tempo che via via incalza, e i protagonisti lo sanno che è un tempo inesorabile che va di corsa e verso la fine. L’eccesso porta anche al comico, al grottesco. È un carnevale tragico che il regista dichiara fin dall’inizio: una compagnia di attori si spoglia e si riveste con dei costumi di scena trovati in dei bauli. In questa grande finzione di riverenza al potere l’unica che non ci sta è la figlia più piccola, Cordelia (Eleonora Bernazza). La sua non finzione porta sofferenza.
Cosa mi dici Cordelia? Nulla. Nulla. A costo di tutto io dirò la verità. Ah sì? Allora la verità sia la tua dote! Orgoglio, superbia, sia di Cordelia che di Lear. Prepotenza e avidità anche delle altre figlie-tigri (Federica Di Martino Goneril e Silvia Siravo Regan). Nessuno è veramente colpevole e nessuno veramente innocente. Re, regine, reggenti. E come si fa a reggere il peso dell’ipocrisia necessaria per governare? Che sia un testo politico lo si capisce dal bel monologo che fa il Matto (Andrea Nicolini) servo inseparabile di Lear in proscenio: i potenti dovrebbero unire non dividere, pensare al bene comune prima del loro tornaconto. Ma la favola di Lavia ci insegna che siamo “erranti”: sbagliamo e andiamo avanti, questo è il nostro karma, il nostro destino. E oggi chi ha il potere lo esercita con violenza o con virtù?
Nell’Inghilterra Elisabettiana riecheggiano le lezioni di Machiavelli su potere e virtù. Lear come primo gesto divide il regno, lo separa. Chi è il Re? Chi è Lear? Essere non essere. Il dramma è una tempesta che travolge tutto e tutti: impotenza e prepotenza nel regnare. E gli onesti? Cominciano a vedere quando sono ciechi (Gloster–Luca Lazzareschi) oppure devono fuggire (Kent–Mauro Mandolini). La patria potestà decade: il padre genera ma non ha più un controllo sui figli. Il delirio del Re viene da qui. Completano il cast: Giuseppe Benvegna–Edgar, Ian Gualdani-Edmund, Jacopo Venturiero–Scozia, Giovanni Arezzo–Cornovaglia, Beatrice Ceccherini–Oswald, Gianluca Scaccia, Jacopo Carta e Lorenzo Volpe – servi di Francia e Borgogna. Tutti bravissimi. Le scene del “circo-mondo” sono di Alessandro Camera, i costumi “barocchi e bruciati” di Andrea Viotti, le musiche “pizzicate e terribili” di Antonio Di Pofi, le luci “seicentesche e moderne” di Giuseppe Filipponio. Tre ore e un quarto di spettacolo con grandi applausi e tributi da parte del pubblico.