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“Oh la bella notte dolce e malinconica piena di ricordi e di sogni sul mare di Liguria, il bel mare fanciullo che la nostalgia predilige”
Ogni volta che leggo qualche pagina di uno dei libri di Alessandro Varaldo (Ventimiglia, 1876-Roma, 1953), che mio nonno, suo figlioccio, custodiva con cura nel suo studio, divenuto quasi un sacrario delle sue opere, mi sembra di tornare indietro nel tempo e provare romantiche emozioni che il nostro presente, così vorticoso di avvenimenti, non ci fa capaci di provare più.
Le sue descrizioni del paesaggio ligure sono piene di fascino ed esprimono una autentica passione per la sua terra e la sua Genova. Forse pochi, per lo meno tra i più giovani, conoscono Varaldo, scrittore e autore di teatro vissuto tra fine ‘800 e prima metà del ‘900. Ma perché di lui si parla poco?

Era un ligure, ma non uno di quelli che egli definiva “uomini delle folle”, quelli di cui, per citare le sue parole, “tutti sanno qualche cosa di vero, ne leggono i libri, ne ripetono le frasi, ne conoscono il profilo: uomini che sono additati nelle vie e seguiti da sguardi curiosi”. Sono gli “uomini che fanno del chiasso”, egli diceva, mentre lui era piuttosto nell’altra sua categoria, gli “esiliati dalla folla”, quelli che vivono “quasi inaccessibili in apparenza, lontani, entro la torre d’avorio, entro il castello incantato della Dolorosa Guardia”. Eppure sono quelli che, diversamente dagli altri, “ingrandiscono ancora nell’avvicinarli”, anche se, mentre dei primi se ne parla ad alta voce, di loro si sussurra appena, “ma sono sulla bocca dei grandi e spesso ne sono cuore e cervello”.
I protagonisti dei romanzi di Varaldo sono i liguri come lui. Anche quelli che sono gravi, silenziosi, che sorridono appena e non si scompongono mai, né dinanzi alle sciagure né dinanzi alle gioie.
Nella nota preliminare de La stella di Venere, romanzo pubblicato nel 1944, Varaldo descriveva nella Liguria la compresenza di due tipi di caratteri tra i suoi abitanti: i liguri “eletti”, pensosi, e i liguri “meno eletti”, verbosi. Quasi due razze “ né troppo distinte e nemmeno esclusive”, diceva, in quanto l’una aveva sempre un po’ dell’altra, “sia pure in minime dosi”. Citava, come esempio del tipico “pensoso”, Giuseppe Mazzini, che nel Lorenzo Benoni diventava a volte “verboso”, quando “si compiaceva un po’ troppo di far mostra della sua potenza dialettica a spese del buon senso, sostenendo qualche volta dei paradossi stravaganti”. Orazio Raimondo era invece un raffinato “verboso”, ma che diventava improvvisamente silenzioso, facendosi una sorta di apostolo, trascinando la folla a seguirlo con attenzione sia nelle parole sia nella “maschera taciturna”.
Comunque gente pratica, i liguri, con un fondo comune nelle due razze, secondo Varaldo, di riservatezza, bisogno di solitudine, ed una ritrosia che sembra “selvatichezza spesso anche goffagine”. E Genova stessa era per lui una città dal carattere “un po’ angoloso”, con un “rude tratto che è proprio dei timidi o dei solitari” per cui fu chiamata città di corsari e di mercanti, tinta di “un’aureola di freddezza e d’ aridità…isolata nel fastigio delle gloriose città sorelle…ma con l’orgoglio di essere bastata a se stessa” e “non sulla via delle città del passato o del silenzio, diventate oleografiche nelle pagine manierate dei viaggiatori letterari che dipingono quello che non vedono ma che si deve osservare”.
Mi piace ricordare un passo di Il fior d’Agave del 1924:
“Accade talvolta che una piccola strada, un angolo di piazza, un’insegna di bottega, d’un tratto risollevino polveroso un nugolo di memorie, e che le memorie si ricompongano a poco a poco, si riordinino, si dispongano a ridare un saggio di vita già vissuta. Felice colui, che può, con un pellegrinaggio dolce, rievocare quasi materialmente le tappe gioconde o malinconiche, serene o tristi, che hanno segnata la sua lunga vita”.
Ecco, secondo me, Alessandro Varaldo seppe con le sue opere compiere questo che non tutti riescono a fare.