È un centenario dolce-amaro, quello che nel 1924 vede i passi per la riunificazione di Fiume all’Italia. Oggi Fiume viene chiamata con un altro nome, la sua traduzione letterale in croato, “rijeka”. Nel 1924 invece quel piccolo lembo di terra, appena un terzo della Repubblica di San Marino, era, sulla carta, uno “Stato indipendente”. Parola grossa per una città che vivendo dei traffici del suo porto, dipendeva ai fatti dal commercio coi suoi confinanti, Italia e Regno Serbo-croato-sloveno appena ribattezzato “Jugoslavia”.
Fiume era appena stata il palcoscenico di una delle imprese più spettacolari della storia: la reggenza dannunziana del Carnaro. Sedici mesi di passione patriottica e libertaria, poesia, esaltazione sotto la guida del Vate degli Italiani, Gabriele d’Annunzio. Un’impresa terminata nella peggiore delle maniere: una guerra civile fra italiani, con i reparti regolari inviati da Roma a sloggiare con le armi i legionari di Fiume. È scorso il sangue fraterno e la più rivoluzionaria delle esperienze politiche è stata sacrificata sull’altare della realpolitik giolittiana.
Ma facciamo un passo indietro. Perché Fiume, città italiana per la gran parte della popolazione (50 mila italiani, 13 mila croati), dovette essere “liberata” da d’Annunzio a fine Prima guerra mondiale, una guerra che ci ha visti vincitori totali sul nemico austroungarico? Il porto liburnico era da secoli corpus separatum del Regno d’Ungheria, ossia un libero comune italiano direttamente soggetto alla corona magiara di Santo Stefano. Circondata da un contado croato, aveva sempre mantenuto gelosamente la propria indipendenza e italianità appoggiandosi sui privilegi riconosciuti dall’Impero asburgico, al quale la corona ungherese apparteneva.
Nel 1915, quando segretamente Italia, Francia e Gran Bretagna s’accordavano col trattato di Londra per definire i compensi a Roma in caso di vittoria nella Grande Guerra, Fiume veniva espressamente citata come porto destinato a un residuale Stato asburgico o a un piccolo Stato croato più o meno dipendente da Budapest. I diplomatici italiani ragionavano in termini di strategia: Fiume era sì una città italiana, ma essa avrebbe continuato a fungere da porto per i nostri nemici sconfitti, in un’ottica di “pace giusta”. Si era molto lontani dalla “pace cartaginese” che sarebbe uscita dai trattati di Versailles e Trianon nel 1919… Nella visione dei nostri delegati, aver tolto all’Austria-Ungheria le terre fino allo spartiacque alpino e mezza Dalmazia avrebbe assicurato i nostri confini e indebolito tanto Vienna da renderla inoffensiva: lasciarle Fiume sarebbe stato un problema irrisorio.
Nel 1917, però, entrò nel conflitto anche l’America di Wilson. Il guerrafondaio e fanatico presidente d’oltreoceano impose le sue condizioni in cambio del lucroso appoggio finanziario e industriale del suo paese all’Intesa: erano i famosi “14 punti”, che – fra gli altri – prevedevano il rispetto del “principio di nazionalità” nella definizione dei confini. Wilson aveva in particolare antipatia gli italiani, e su quel fronte si trovò perfettamente d’accordo coi francesi di Clemenceau. Così nelle discussioni a Versailles l’Italia si trovò messa in costante minoranza: il principio di nazionalità andava applicato se era a suo svantaggio (come in Dalmazia, dove gli italiani erano una frazione minima della popolazione), mentre andava ignorato a Fiume, città a maggioranza italiana, per il quale si faceva prevalere la lettera del trattato di Londra. Un evidente doppio standard tutto a favore della nuova creatura prediletta da Londra e Parigi, quel “regno degli slavi del sud”, jugo-slavia, che faceva parte del disegno strategico anglofrancese fin dal 1915. Infatti, i due “cari alleati” mentre promettevano a Roma la Dalmazia col trattato di Londra, segretamente rassicuravano Belgrado e i circoli pan-slavisti che la storica regione adriatica avrebbe fatto parte del loro nuovo regno balcanico.
In questo clima di evidente prepotenza di due alleati, Francia e Gran Bretagna, spalleggiati dal ricatto finanziario di Washington da cui dipendevano le forniture di grano all’Italia, si consumò la tragedia di Fiume a Versailles, con la delegazione italiana di Vittorio Emanuele Orlando che lascia in lacrime la conferenza, in una montatura melodrammatica che riuscì a sortire l’esatto effetto opposto sull’opinione pubblica internazionale: far apparire gli italiani come guitti da sceneggiata, deboli e piagnucolosi. Una stortura a cui reagì con determinazione d’Annunzio coi suoi legionari, il 12 settembre 1919, dimostrando al mondo di che pasta fossero fatti, veramente, gli italiani.
Della Reggenza dannunziana s’è scritto molto, e i lettori di CulturaIdentità lo sanno bene. Dopo il Natale di Sangue del 1920, col trionfo del realismo politico giolittiano, Fiume entra in un limbo durato quarantasei mesi. Il periodo dello Stato Libero di Fiume non è affatto pacifico: sommosse civili fra i nazionalisti italiani di Francesco Giunta (il determinato capo degli squadristi triestini) e autonomisti di Riccardo Zanella (avversario di d’Annunzio durante la Reggenza) provocano il collasso del governo cittadino, che addirittura nel 1923 si ritira in territorio jugoslavo come “governo in esilio”, suscitando l’ira dei più accesi filo-italiani. Da Roma il 17 settembre 1923 viene quindi inviato un governatore militare, il generale Gaetano Giardino, con lo scopo di riportare l’ordine in città, mentre contemporaneamente si avviano le trattative con Belgrado per la chiusura del contenzioso.
È col 1924 che finalmente Fiume esce dal limbo dello Stato Libero. Nel gennaio i governi italiano e jugoslavo trovano un accordo, che lascia la città all’Italia, compresa la striscia di costa che la unisce all’Istria, in cambio di parti del suo entroterra e del delta del fiume Eneo, con il porto Baross. Poco dopo Vittorio Emanuele III può entrare in città come sovrano, mentre il 30 ottobre di cento anni fa coi regi decreti si integra l’amministrazione cittadina a quella del Regno. Il 30 ottobre è una data simbolo da sei anni prima, a guerra ancora aperta: è il 30 ottobre 1918 che i fiumani scendono in strada chiedendo a gran voce l’annessione della Città di Vita all’Italia.
L’esperienza dello Stato Libero era durata poco e male. Eppure, durante quei quattro anni scarsi le istanze autonomiste avevano ribollito di idee nuove, come di solito succede per le piccole città-stato che devono barcamenarsi fra vicini ingombranti. Fiume diviene “porto franco” anche per questioni non commerciali, come il divorzio, non ammesso in Italia. È infatti nella Città di San Vito che viene Guglielmo Marconi per ottenere lo scioglimento del primo matrimonio con Beatrice O’Brien, al quale seguiranno tre anni di tira-e-molla con la Sacra Rota per avere la medesima sanzione anche dalla Chiesa.
Fiume resta italiana per altri ventun anni. Gli ultimi dei quali funestati dalla guerra e poi dall’invasione jugoslava. La città, estremo lembo del nostro paese, non era difendibile, politicamente e militarmente. Le ultime velleità degli autonomisti di creare un nuovo Stato Libero vengono spazzate via dalla brutalità comunista, con i soliti mezzi: arresti, liquidazioni, infoibamenti. La popolazione capisce che la città non è più “Italia” ma “Balcani” e decide di andar via. Un esodo raccontato con documentata precisione nel saggio “Foibe, esodo, memoria” da Giovanni Stelli, Pier Luigi Guiducci, Emiliano Loria e Marino Micich, che da anni è l’anima della Società di Studi fiumani – Archivio Museo storico di Fiume a Roma, città nella quale si raduna la gran parte della comunità di Fiume in esilio.
Oggi Fiume è un lontano sogno per gli italiani che la ricordano. Eppure, allo stadio cittadino, durante le partite di calcio, gli ultras locali ancora alzano striscioni con la scritta “Forza Fiume”…