Come nasce la follia dell’ideologia woke

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Una ideologia che ha strumentalizzato perfino i colori dell’arcobaleno. Il woke, figlio della Scuola di Francoforte e del Decostruzionismo, è una minaccia alla nostra cultura e identità e soprattutto alla libertà. Con la svolta negli USA, però, possiamo batterlo

Che il nuovo millennio, diretta prosecuzione del secolo breve, non dovesse essere da meno di quest’ultimo in termini di impatto sulla società, lo si poteva intuire facilmente. Già dall’attesa per quella vigilia di capodanno 1999/2000, segnata dal timore di un disastro globale ad opera del fantomatico millennium bug – risoltasi poi in un altrettanto globale bolla di sapone – si capiva che il mondo avrebbe continuato ad accelerare sulla strada infinita dell’innovazione tecnica, della digitalizzazione del mondo, della società e dell’essere umano. E infatti, dispositivi ogni giorno più piccoli e potenti, connessioni e schermi sempre più pervasivi ed una spinta al consumo mai vista prima, non potevano non avere una ricaduta sulla vita dell’uomo-individuo e animale sociale. Eppure, nonostante McLuhan ci avesse ampiamente preparati a quel villaggio globale che tutto inghiotte e controlla, si è convinti che davvero in pochi hanno previsto che nel terzo millennio «spade sarebbero state sguainate per dimostrare» che i cromosomi XX ed XY dividono in due gruppi gli esseri umani. Ma la realtà dei nostri giorni è riuscita a stupire – quasi – tutti, in quella parte di mondo che comprende la cara Vecchia Europa ed i resti di quella che fu la talassocrazia britannica, e cioè quell’Occidente sempre sull’orlo del baratro, insidiato da tutti, a partire da sé stesso. Si è detto quasi tutti perché quantomeno i risvegliati, gli woke, protagonisti del tentativo di rivoluzione in atto, saranno stati ben coscienti di dove si sarebbe giunti, proprio a causa del loro agire nelle istituzioni culturali e nei centri di potere sparsi nella suddetta porzione di mondo. Ma cos’è, quindi, il wokeismo? E dove siamo arrivati?

La via più semplice per tentare di rispondere alla prima di queste due domande è quella di guardare agli elementi teorici che costituiscono questo multiforme e disorganico campo di attivismo politico, tradottosi fin da subito in cieca ideologia. In questa prospettiva, gli Studi Culturali e gli Studi Postcoloniali, gli Studi di Genere e la Teoria Critica della Razza rappresentano le principali ramificazioni di quella pianta malata, seminata e coltivata principalmente da postmodernisti e francofortesi. È in questi ambienti ideologici marxisti del ‘900, infatti, che il wokeismo attinge per le proprie sempre nuove battaglie, il cui scopo ultimo è quello di abbattere l’ordinamento sociale e politico che – tra l’altro – ha permesso ad esso di crescere e prosperare. Il ragionamento logico, scientifico e razionale che è stato per secoli considerato il lume che avrebbe guidato il cammino dell’umanità, viene invece oggi attaccato e svilito in ogni modo possibile proprio da quelli che, ironia della sorte, sono a tutti gli effetti i nipoti di quell’ammaliante visione. Un modo infido e molto efficace per minare le strutture sociali, politiche e non da ultimo economiche occidentali, declinate opportunisticamente come un’unica malefica macchina dedita a «dominare» questa o quella «minoranza marginalizzata».

Per capire a che punto si è giunti, invece, bisogna guardare al risultato delle ultime elezioni presidenziali statunitensi, per capire quanto in profondità gli attivisti woke siano riusciti a portare il loro attacco alla società. In questo senso, la rielezione di Donald Trump rappresenta sì una felice e attesa risposta di buon senso della società USA, ma si configura anche come la maggiore prova di quanto l’attacco sia giunto al cuore della «macchina» da distruggere: la Presidenza degli Stati Uniti d’America. L’esito delle urne evidenzia infatti come una grandissima parte degli americani non abbia avuto timore a votare per un candidato, la Harris, che dichiaratamente aveva nel suo programma la prosecuzione di quel processo disgregativo dell’identità statunitense in atto da circa vent’anni, ovvero la cancel culture. Un processo costruito in primis attraverso la decostruzione e la risignificazione della storia degli Stati Uniti, non più «terra dei liberi», ma raccontata come terra di usurpatori che hanno costruito una nazione sullo sfruttamento dell’altro. Inutile sottolineare quanto questo artificio narrativo sia, appunto, un artificio strumentale, che può essere utilizzato per qualsiasi nazione o civiltà, dall’Islanda di oggi alla Persia del V secolo a.C., dalla Cina comunista al Califfato Omayyade, e ovviamente all’Antica Roma. Ma non c’è da stupirsi se cinquant’anni di proselitismo e propaganda, via via più intensi e serrati, siano riusciti a penetrare nel profondo del comune sentire di tanti americani, ormai convintamente woke al punto di desiderare che i bianchi non facciano più figli e fare attiva propaganda in tal senso, o di conferire quote del proprio reddito alla minoranza di turno, e ciò per espiare la «colpa» di aver avuto antenati europei. A ben guardare, questo meccanismo diventa ancor più perverso nella sua efficacia soprattutto su giovani e giovanissimi, meglio ancora se bianchi e benestanti, principale bacino da cui il wokeismo recluta sempre nuovi alleati, preziosi più degli altri proprio perché bianchi e benestanti, quindi in grado di causare enormi danni dall’interno di quel sistema simbolico che essi – agli occhi woke – incarnano. Ed è sicuramente anche questo che ha contribuito alla discesa in campo dell’altro grande protagonista della vittoria elettorale di Trump: Elon Musk. L’imprenditore più ricco del mondo aveva nella tutela delle sue imprese e dei suoi progetti già sufficienti ragioni per scegliere di appoggiare uno dei due contendenti, come del resto hanno sempre fatto e sempre faranno tutti gli influenti uomini d’affari in USA ed in ogni altra parte del mondo. Ma nel caso di Musk e di queste elezioni un’importante motivazione è da ricercarsi nella lotta a quel «virus woke», che come egli stesso ha raccontato su X avrebbe contagiato suo figlio Xavier, divenuto poi Vivian Jenna, e che oggi dichiara di voler abbandonare i nuovi, minacciosi e pericolosi, Stati Uniti trumpiani. E se neanche un uomo dalle possibilità praticamente infinite come Elon Musk non è riuscito ad evitare che suo figlio venisse risucchiato dal vortice autodistruttivo del wokeismo, allora diventa chiaro a tutti del punto a cui si è giunti. In questo senso il transfemminismo lgbtqai+ è forse l’arma rivelatasi nel tempo più micidiale, con una capacità impressionante di infiltrazione in ogni ambito della vita pubblica e privata, arrivata a presidiare e controllare le diverse anime della sinistra americana (e per riflesso, di noi province dell’Impero…), da quelle più radical a quelle più glamour, e che sopprime ogni voce interna dissidente o semplicemente critica.

Non sappiamo se Trump e Musk riusciranno a rivestire i panni di quel katécon che tanto serve a rallentare la corsa di questo monstrum, finora rivelatosi quasi inarrestabile. Un monstrum vestito subdolamente dei colori dell’arcobaleno, dietro cui si cela una strategia sovversiva e rivoluzionaria. Nemmeno possiamo dire, in realtà, se effettivamente intenderanno provarci davvero.

Sappiamo però che la richiesta della maggioranza degli americani è chiara, e si inserisce nella scia di altre e recenti tornate elettorali in Italia ed in Europa, e che gli elettori si aspettano che venga combattuta e possibilmente portata a termine.

Ma sappiamo anche che battersi contro il wokeismo significa difendere il diritto di affermare la verità senza avere paura di perdere il posto di lavoro per colpa della cancel culture. Significa difendere i propri valori senza rischiare il blocco dei conti in banca come nell’ultra-woke Canada di Trudeau. Vuol dire poter esprimere contrarietà alle politiche del governo sui social senza vedere la polizia bussare alla porta per un tweet come nel Regno Unito di Starmer. Vuol dire poter difendere i propri figli dal plagio arcobaleno che approfittando dei turbamenti adolescenziali vuole spingerli a prendere ormoni o a storpiarsi chirurgicamente senza rischiare di vedersi cancellata la patria potestà, come nella California di Newsom. Vuol dire affermare il proprio diritto a essere orgogliosi di radici, passato, cultura e identità senza essere accusati d’essere «suprematisti». In altre parole, è ciò che tutti i patrioti hanno fatto fin dall’Ottocento: combattere per la verità e la libertà. Una battaglia che deve essere vinta.

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