Allo scultore internazionale Jago il Premio CulturaIdentità il 4 agosto ad Anagni
“In arte non c’è niente da capire”. E’ l’affermazione più forte e dirompente che Jago potesse fare, soprattutto pensando alle sue sculture. Una frase che è una sorta di manifesto ed è sufficiente un punto solo. Perché essa si trascina una serie di ragionamenti che smontano dalle fondamenta il sistema dell’arte contemporanea, in cui le opere non possono più essere guardate con gli occhi ma devono essere ascoltate con le orecchie e per “vedere” una mostra bisogna avere una forte teoria alle spalle per capirle.
E invece…
«Se devo spiegare una mia opera significa che ho sbagliato».
In che senso?
«Nel senso che io faccio una scultura per sintetizzare in una forma quello che ho desiderio di significare, se non si capisce ho sbagliato. Non sono uno scrittore che uso le parole. E mi fa sorridere che oggi tutti gli artisti vogliono essere filosofi».
L’artista non deve filosofeggiare
«No. Il gesto dell’artista sta nella restituzione a chi guarda, attraverso la forma, di quello che lui ha inteso, oppure nella semplice creazione, cioè come volesse fare un figlio. Un figlio non si spiega, è una nostra prosecuzione, per di più autonoma e con una sua vita. Come le opere d’arte».
Contrariamente alla predilezione dell’arte contemporanea per le cose orrende e dissacranti, tu ti occupi di Bellezza.
«Voglio occuparmi di Bellezza, nel senso più alto che diamo al termine, la bellezza cioè dell’arte che partecipa anche del brutto e lo emenda».
Una forte tensione estetica.
«In parte, ma io credo che la Bellezza sia innanzitutto un valore politico ed io, pur non parlando di politica come fanno gli artisti cosiddetti impegnati, me ne occupo in modo più affilato perché “faccio”, semplicemente “faccio” le cose e, facendole bene, meglio che posso, tendendo alla bellezza eterna, costruisco dei modelli positivi in cui una cosa giusta e bella è il perno attorno al quale si costruisce una comunità, o un progetto urbano, o un progetto di vita. Ho scelto di essere creativo e non distruttivo».

Diversamente dagli artisti concettuali che spesso si limitano ad avere un’idea e poi la fanno realizzare da altri, tu ancora scolpisci da solo.
«Trovo paradossale che si affidino le loro opere ad altri. L’artista concettuale continua a parlare di sesso, ma poi chiama un altro a fare l’amore con la propria donna, e per paradosso si convince di avere avuto un orgasmo. Io invece sono convinto che attraverso l’esperienza del lavoro quotidiano in studio, posso aumentare la mia conoscenza, e dunque aumenta il contenuto che posso restituire al pubblico».
Ti interessa il pubblico?
«Sì. Non mi interessa l’art system, cioè tutto quel sistema che lucra sull’artista: infatti io sono diventato imprenditore di me stesso – come del resto i più grandi artisti di tutti i tempi – per garantirmi autonomia e libertà. Ma detto ciò, io mi occupo del popolo e non è un caso che molte mie opere, piuttosto che venderle e farci un ricavo, sono diventate pubbliche, come ad esempio il “Figlio velato”, esposto in permanenza nella Chiesa di San Severo fuori le mura nel rione Sanità di Napoli. Sta in questa restituzione la mia idea politica».
Dunque serve a questo l’arte?
«In parte, ma credo che l’arte debba contribuire a costruire il vocabolario delle nostre emozioni, per capirle e viverle».
