C’è chi saluta col gomito e chi salutava romanamente…

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Uno dei gesti simbolo, prodotto del pandemicamente corretto di quella che ricorderemo come l’Epoca della Mascherina, è il saluto col gomito. Un saluto che sa un po’ di imbarazzo e un po’ di circostanza. Un movimento anti-estetico, che assomiglia più ad un tentativo goffo di simulare una mossa di thai boxe o di karate.

Fatto poi dai burocrati di Bruxelles, tutti belli incravattati, è uno spettacolo ancora più orribile. Pensi subito all’accezione negativa “alzare troppo il gomito” e, come in un incubo, si materializza Jean-Claude Juncker stranamente barcollante in uno dei tanti summit che lo hanno visto protagonista in questi ultimi anni.

Nei mesi del lockdown nelle chat sovraniste (ma secondo me anche in quelle delle elite radical chic) girava una mitica poesia di Trilussa, La stretta di mano, che sembra scritta apposta per questi tempi: Quella de dà la mano a chicchesia, nun è certo un’usanza troppo bella: te po’ succede ch’hai da strigne quella d’un ladro, d’un ruffiano o d’una spia. Deppiù la mano, asciutta o sudarella quann’ha toccato quarche porcheria, contiè er bacillo d’una malattia, che t’entra in bocca e va ne le budella.

Uno che di simboli ne ha inventati tanti nella sua vita, Gabriele d’Annunzio, nel 1919, durante l’occupazione della città di Fiume, impose a quella meglio gioventù che lo seguì nell’Impresa il saluto del legionario romano. Quel saluto era diventato popolare nel cinema muto del primo Novecento e si era consacrato in un kolossal che ebbe successo in tutto il mondo, Cabiria (1914), diretto da Giovanni Pastrone, per il quale il Vate scrisse le didascalie. Già nel 1917 di ritorno col suo velivolo dal bombardamento di Pola si era inventato un altro famoso saluto, un grido di esultanza con il quale gli aviatori italiani festeggiavano il ritorno da una missione di guerra: Eia Eia Alalà. Il poeta soldato aveva accorpato due incitazioni di due tragici greci come Eschilo e Pindaro, che li avevano usati nella Fedra e nella Nave. La storia la conosciamo: durante il Fascismo Mussolini copiò questa ed altre simbologie a d’Annunzio, per il quale ebbe sempre un rispettoso distanziamento sociale, come si direbbe oggi, tenendolo buono a distanza con tanti regali al Vittoriale degli Italiani, dove d’Annunzio passò gli ultimi anni della sua vita.

Certo, siamo volati molto in alto in confronto al triste saluto di gomito dei nostri giorni bui, ma la Storia, soprattutto dopo cento anni, va raccontata senza menzogne e strumentalizzazioni. E senza le anacronistiche leggi alla Fiano e compagnia bella. A loro e a tutti noi già rispose un secolo fa il grande cantore Trilussa: ..Invece a salutà romanamente ce se guadagnambia un tanto co l’iggiene, eppoi nun c’è pericolo de gnente. Perché la mossa te viè a dì in sostanza: “Semo amiconi..se volemo bene..ma restamo a ‘na debbita distanza”.

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