In un articolo del 24 dicembre scorso dal titolo Un mostro da evitare, Gustavo Zagrebelsky si è detto preoccupato perché una larga maggioranza di italiani, secondo i sondaggi, è favorevole all’elezione diretta del Presidente della Repubblica.
Lo sconcerto di Zagrebelsky viene meno se solo si riflettesse senza troppi pregiudizi ideologici sull’anomalia dell’attuale Costituzione, la quale prevede che ad eleggere il Presidente della Repubblica siano coloro che quest’ultimo ha il compito di richiamare al rispetto della nostra Magna Charta, essendone il garante supremo. Non occorre essere dei costituzionalisti per comprendere che una Costituzione che permette al legislativo di eleggere non solo l’esecutivo ma anche il Presidente della Repubblica è ben poco in linea con la teoria della separazione dei poteri di Montesquieu, cui Zagrebelsky ed altri oggi si richiamano contro l’opzione presidenzialista.
La verità è che il presidenzialismo è da sempre nelle corde degli italiani. Abbiamo conosciuto un presidenzialismo cattolico, intorno al Centro Sturzo, e uno laico, che già ai primi anni ’60 riprese la proposta presidenzialista di Calamandrei scartata dalla costituente in favore del “compromesso” della “democrazia consociativa” o “repubblica monarchica dei preti”, come la definì il repubblicano Randolfo Pacciardi, fondatore, nel 1964. Pacciardi, che era stato vice presidente del consiglio nei governi della ricostruzione guidati da De Gasperi, venne espulso dal PRI e privato del passaporto dall’allora magistrato Luciano Violante, che lo accusò di golpismo. Fece dirigere il suo settimanale, Nuova Repubblica, al missino Giano Accame, che fu tra i firmatari dell’Appello presidenzialista insieme a personalità politiche di primo piano, come Mario Vinciguerra, presidente della società italiana autori e editori, il senatore comunista Tommaso Smith, i senatori democristiani Raffaele Cadorna e Giuseppe Caronia, il socialdemocratico e più volte ministro Ivan Matteo Lombardo, e altri ancora.
A destra il presidenzialismo, già all’epoca della Costituente, era stato sostenuto da Carlo Costamagna, che nel presidente eletto a suffragio universale vedeva il “custode della legalità”, il “re senza corona” dotato di poteri decisori, convinto com’era che il presidenzialismo avrebbe sottratto ai partiti il controllo diretto della società civile. Anni dopo, il presidenzialismo venne rilanciato nel congresso del MSI di Napoli (ottobre 1979) da Giorgio Almirante, il quale elevò la nuova Repubblica presidenzialista a vero e proprio carattere identitario della destra italiana.
La causa dell’investitura popolare del Capo dello Stato venne poco dopo sposata da Bettino Craxi, che secondo alcuni aveva il politologo Gianfranco Miglio come suggeritore occulto. Il progetto presidenzialista alla francese nel segretario socialista si identificava con la sua aspirazione a diventare il leader dell’intera sinistra italiana, in vista dell’imminente caduta del blocco sovietico e della necessità del PCI di rivedere la sua natura. Ma nel PSI esisteva da tempo una corrente presidenzialista tutt’altro che sprovveduta sul piano sia politico che culturale, comprendente, fra gli altri, Giuliano Amato, che già nel 1977 su Mondo Operaio aveva indicato nel progetto presidenzialista un possibile mezzo di superamento del famigerato Stato dei partiti, e Valdo Spini, che nella direzione del partito si era distinto per il suo elogio della repubblica presidenziale come unica forma di governo in grado di assicurare la governabilità costringendo i partiti a schierarsi attorno a candidati realmente capaci di raccogliere la maggioranza dei consensi.
Nel 1993, in seguito alla schiacciante vittoria del “Sì” al referendum di Mario Segni, ci fu chi, come il giornalista Maurizio Marchesi, dalle colonne di Epoca esortava i partiti a non sprecare il messaggio inequivocabile degli italiani e ad avviare la riforma della costituzione in senso presidenziale: De Gaulle, in fondo, aveva conquistato il presidenzialismo con il 62 per cento, mentre il “signor referendum” italiano aveva raccolto un plebiscito pari all’83 per cento.
In quegli anni fu Gianfranco Fini a fare del presidenzialismo il cavallo di battaglia della “destra nuova” del dopo-Fiuggi in vista della tanto attesa “democrazia dell’alternanza”. Il presidenzialismo divenne a un certo punto una bandiera così irrinunciabile per Fini da indurlo a dichiarare di essere pronto a fare concessioni persino sul federalismo.
Nonostante la varietà delle forme con cui è stato di volta in volta rappresentato, il presidenzialismo non ha mai perso la sua centralità nel dibattito pubblico italiano, fino a tempi recenti. Nel 2013 se ne parlava anche in ambienti apparentemente distanti dalla tradizione presidenzialista italiana. Nel giugno di quell’anno, per esempio, il Corriere della sera pubblicava un appello a firma di Barbera, Panebianco, Parisi e lo stesso Segni, i quali si dichiaravano apertamente a favore del semipresidenzialismo: “La Costituzione – si leggeva nel documento – ci ha consegnato un sistema di governo debole, incapace di raccogliere le sfide del momento attuale. Per questo si sta diffondendo fra i cittadini il rigetto della politica e la sfiducia verso le istituzioni. […] Condividendo preoccupazioni e indicazioni che vanno manifestandosi da più parti, riteniamo che la soluzione preferibile per il nostro paese sia quella rappresentata dall’esperienza francese, con l’elezione diretta del presidente”. Due giorni dopo, dalle colonne de La Stampa, lo storico e politologo Rusconi, scriveva che “il presidenzialismo è una cosa nuova e seria” perché “presuppone una risistemazione solidale di tutti gli equilibri democratici di rappresentanza”.
Persino Veltroni su L’espresso si lasciò sfuggire: “L’eccezionalità della situazione deve portare a una riforma straordinaria. Un passaggio simile a quello che portò alla Quinta Repubblica francese”. Chiudeva in bellezza il programma elettorale del Pdl alle politiche 2013, che prevedeva espressamente “elezione diretta e popolare del Presidente della Repubblica e rafforzamento dei poteri del governo”.
Erano quelle le ultime battute di un dibattito a più voci che in Italia andava avanti da almeno sessant’anni e che non si era arrestato neanche all’epoca della bistrattata Bicamerale.
E se l’avvento del renzismo è coinciso con la definitiva cancellazione del presidenzialismo dall’agenda delle riforme, è merito di Giorgia Meloni aver rilanciato ultimamente un tema da sempre in linea con la tradizione della destra italiana, depositando una proposta di legge costituzionale a sua firma che prevede l’elezione a suffragio universale e diretto del presidente della Repubblica con poteri di nomina e revoca dei ministri e la guida dell’esecutivo. Insomma, potrebbe non trattarsi più di un mero “sogno”, e il fatto che si sia parlato di “mostro” proprio la vigilia di Natale lo conferma.
Vorrà dire che alla vigilia di Capodanno, da queste colonne, siamo noi a formulare i nostri migliori auguri per un’Italia presidenzialista e, come tale, più democratica. Se, infatti, la democrazia è partecipazione del popolo all’elezione dei propri governati, quale alternativa potrà mai esserci al presidenzialismo? Solo quest’ultimo, infatti, offre ai cittadini la possibilità di votare per la persona che si ritiene debba governare sulla base della sua storia personale e politica e dei programmi che propone. Più democratico di così!
Grazie,prof.Pupo…grazie:è l’unica volta che,f i n a l m e n t e,non viene neanche accennato che fautore del presidenzialismo possa essere l’ultimo arrivato da qualche sola settimana a sostenerlo:Berlusconi:che palle! altrimenti.Che non ci sarebbe stata la ‘dignità’ di sostenere che gliel”imparò” Fini,a cui l’aveva ‘trasmesso’ Almirante,come giustamente Lei ci conferma.E’ stato un piacere leggerla.