“I miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo alla fine del mondo”. Così la prima sera.
Non ci era salito certo da solo Josè Bergoglio al soglio pontificio, ma preso da confratelli e Spirito Santo.
Già dalla prima scena con un’attenzione estrema alla geografia delle storie e dei rapporti, ad una identitaria provenienza dai confini: era l’inaugurazione di un papato che ha gestito lo spazio con creatività, con coraggio, senza tatticismi ed egoismi.
Bergoglio, divenuto Francesco, ha affidato il sentimento e il ministero del tempo al dominio della fede, consapevole che il tempo della vita, della cura, della salvezza appartengono, per il cristiano, ad una dimensione metastorica.
Con lo spazio no. Dentro Francesco vi ha combattuto la sua battaglia storica più giusta, utilizzando due gesti fondamentali di un solo e semplice mezzo: il suo passo, di piede grosso e genuino di figlio di migranti italiani, fatti dal lavoro e dal senso della casa.
Due gesti: un passo in avanti, per spalancare spazi nuovi di ospitalità ed espressione per tutti; un passo indietro, per recuperare spazio di manovra dove mancava, per accogliere e difendere tutti.
Il tutti è senz’altro il “todos” gesuitico di Sant’Ignazio di Loyola, per cui nulla sulla Terra è estraneo al divino; è il tutti creaturale di San Francesco, fino a sorella morte; è il tutti di quelli che comunque sono nati da un grembo di madre, la realtà più vicina al mistero di Maria.
L’occupazione dello spazio con il suo corpo, il “venire da lontano” per prendere posizione al centro, gli ha procurato spesso esclusione ed ha generato divisione intorno alla sua figura.
Scomodo due volte, dentro l’ordine gesuitico quando assumeva i primi incarichi episcopali vietati dalla Compagnia e dentro la Curia Romana, visto che nessun gesuita, quasi di altra Chiesa, era stato mai pontefice.
Scomoda la sua immagine, sporcata dall’accusa di non essersi schierato esplicitamente contro la dittatura di Videla, in contrapposizione con la realtà discreta e svelata della “lista Bergoglio” che dice invece del suo lavoro silenzioso di soccorso e di giustizia verso le vittime del regime.
Dibattuta la sua posizione nei confronti della teologia della Liberazione, fiorita in Sudamerica mentre Bergoglio cresceva dal punto di vista ecclesiale e alla quale in tanti hanno cercato di avvicinarlo, facendone un paladino della rivoluzione di classe. Ma Bergoglio ne ha sempre rigettato le radici, piantate più nell’ermeneutica marxista che nella fede cristiana. Perché non di una classe era la lotta, ma dell’umanità.
In bilico è stata anche la posizione di un pontefice che assume la cattedra di Pietro calda ancora del magistero di Papa Benedetto XVI dimissionario, ma emerito, e sempre nell’ombra dell’atletismo pastorale e politico del Papa Santo Giovanni Paolo II.
Papa Francesco, con il suo prendere posizione, ha creato il suo spazio originale illuminato dalla misericordia e “dalla diplomazia delle ginocchia” intorno al quale tanti si sono affollati: destre e sinistre, vittime e carnefici, potenti e umili, devoti e detrattori, innamorati e disamorati. Ancora in queste ore è così e verrebbe da dire “giù le mani da Francesco”.
Il “tutti” di Francesco è stato per molti sinceramente urticante, fastidioso, irritante, ma per tantissimi ha costituito il viatico per la dolce resa alla misericordia e alla speranza. In troppi siamo stati poco capienti, sprovvisti di spazio per “i tutti” e timidi nel fare spazio. Eppure chi si è arreso all’evidenza oggi si mostra grato.
Provo ad utilizzare quattro parole per definirlo, tre dall’accezione ordinaria, calzanti sulla persona; l’ultima in un’accezione tutta ancora da scoprire, meno personale, forse epocale.
Papa Francesco popolare, pellegrino, identitario e terrestre.
Popolare per l’ecclesia, in senso pastorale; popolare verso le genti dei quattro angoli del mondo. Consapevole delle dinamiche centro-periferia, attento ai margini, non ha mai concesso al centro – del potere, della cultura, dell’attenzione – di tracimare sulle periferie invadendole. Ha ostacolato le colonizzazioni culturali, illuminando i popoli di luce propria, per la loro specificità. Ha rigettato la mondanità, quella spirituale e quella dei costumi, non ammiccando mai agli idoli della vita spensierata perché indifferente. Ha ribadito anche che nei popoli alberga una tradizione profonda, la famiglia prima di tutto, nella quale la dottrina della Chiesa si radica e che la contemporaneità non può spazzare via. Popolare perché presente nel mezzo: fino alla morte segno tangibile, mai simbolo astratto. Presente nella Pasqua con il corpo pesante, i segni della terapia, le macchine della cura, ancora una volta ingombrante, perché troppo umano e dunque essenziale. Privo dell’aura dell’assenza di Ratzinger o della silhouette artistica e sofferente, ma già santa, di Wojtyla, Francesco era al posto suo prima di morire: tra la gente che lo tocca.
Pellegrino, perché sulla strada, anche questa gesuitica. Ancora con il suo passo, ha incontrato tutti. I migranti, per i quali ha lanciato fortissimi i richiami all’accoglienza, fondamento di umanità, ma ha anche rivendicato la loro libertà di non dover lasciare la propria terra per inseguire miraggi e subire soprusi. Ha incontrato le diversità di ogni genere, come si incontrano, semplicemente, tutte le forme dell’esistenza lungo il cammino. Con naturalezza, senza ostentazioni del potere del “pride” di turno, ma robusto nel riconoscere la dignità delle condizioni, delle scelte e delle necessità di tutti gli esseri umani parimenti in cammino, senza stravolgimenti antropologici. Ha difeso la vita umana in divenire, ma senza mai contraddirla nella sua unicità e fragilità. Per questo motivo Francesco si è dimostrato spiritualmente e culturalmente irriducibile alla contesa tutta politica tra diritti da concedere o negare. L’evidenza di Francesco è stata la naturale accoglienza delle condizioni umane, un disarmante a-priori, semplicemente da seguire nel gesto.
Identitario perché Francesco, di nome e di fatto con gli ultimi. Ultimi, identici nella pena, i poveri, le vittime, i colpevoli. Nelle zone d’ombra dell’esistenza, nei quartieri della povertà, tra le macerie della guerra e tra mura anguste dell’espiazione papa Bergoglio ha tentato di aprire porte sante. L’ultima, raggiante, per il Giubileo della speranza a Rebibbia, in carcere. La povertà è una sciagura economica, ma non manca il pane nel mondo. La guerra è un’evidenza che nasce dalle brame di potere e ancora una volta dalla caccia al denaro. Ma è lo spirito che si asciuga e muore, generando la più profonda povertà, al punto da non riconoscere alcuna speranza di riscatto nel lavoro, nella giustizia, nell’amicizia umana. Succede questo. Anche papa Francesco è stato ultimo, troppo spesso solo, come nella Pasqua del Covid, inascoltato e inascoltabile. Il “fallimento” dei suoi richiami, per esempio contro la guerra, è stata la sua esperienza da ultimo, “sovrano impotente”. Nella preghiera, papa Francesco ha stabilito le regole di comunicazione con tutti, quindi con gli ultimi. Ogni intervento del pontefice si è sempre chiuso con un invito alla preghiera reciproca e, in particolare, alla preghiera di tutti, di chiunque per il Papa. Straordinario mezzo per mettere tra le mani, e sulle labbra, di ciascuno – miseri, indifferenti, colpevoli, carnefici- un atto gratuito, ma impegnativo, per tornare umani: pregare per un altro uomo bisognoso. Nel suo chiedere quasi quotidiano una preghiera, papa Francesco ha continuato ad offrire a tutti la possibilità di appartenere, di non essere esclusi.
Terrestre, non nel senso di terreno. Il papa preso dalla fine del mondo, è stato forse catapultato nella fine di un mondo. Quello della nostra casa. Ma non per catastrofismo ambientalista. Definito pontefice ambientalista per le sue encicliche, non può essere frainteso fino ad essere invischiato in una generica ideologia green troppo di moda.
Le encicliche ambientali hanno un fondamento creaturale forte, per il quale la vita naturale è creata e il compimento di tale creazione si ha attraverso l’opera dell’uomo. E la vita umana sulla terra è il bene più a rischio, prima di fauna, flora e altre alchimie. Nulla di più distante dal pragmatismo burocratico e materialistico di molti ambientalisti.
Papa Francesco sembra però consapevole di una sfida tutta umana, tutta contemporanea, forse ormai di retroguardia. Nell’età in cui si affermano prepotenti gli extraterrestri – che per ambizione, per ingordigia o per profetica visione superano la necessità della permanenza sulla Terra e forse dell’umano – Francesco ha scelto, perfino nel testamento, di ribadire il radicamento semplice “nel terreno”, l’essenzialità della casa Terra della quale lo spirito è infinita atmosfera. Nel sepolcro fatto con la pietra dei suoi avi, dalla terra ligure.
Servirà forse a breve un pontefice che elabori una nuova “teologia del cosmo”, senza rispolverare le matrioske aristotelico-medievali, per un tempo nuovo in cui gli uomini saranno lontani dalla Terra che avranno lasciato.
Per ora, questo papa corposo, un pianeta egli stesso, magmatico nel nucleo e fecondo nella sua superficie accogliente, continua ad occupare con protagonismo lo spazio umano. Con i soliti due gesti del passo. Avanzare nella piazza di Pietro, dove per l’ultima volta ha incontrato chi lo aspettava, e ritirarsi nella basilica di Santa Maria Maggiore, dove la sua tomba inaugura un nuovo recinto di accoglienza, ancoraggio saldo per chi si sentirà ancora, nello spirito, terrestre.