La didattica senza relazione: come fare cultura in un quadratino?

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Il fenomeno della DAD (didattica a distanza) in questi tempi di distanziamento sociale è una delle più grandi conquiste e al contempo una delle più grandi perdite educative e sociali di tutti i tempi.

Il professore arriva virtualmente in tutte le case, raggiunge tutti coloro che hanno una connessione internet, nonostante le scuole, in particolare le superiori e le università, siano chiuse. Eppure, è evidente, viene meno il contatto sensoriale completo. Inoltre dati Istat del 6 aprile 2020 mettono in luce alcune disuguaglianze da non sottovalutare, infatti il 20% degli studenti al Sud Italia non ha un computer o un tablet in casa, e il 7,7% al Nord. Disparità queste già esistenti prima dell’emergenza, e che ora si sono semplicemente acuite, dal momento che lo strumento elettronico è diventato indispensabile per garantirsi il diritto allo studio.

C’è una sovrapposizione di piani reali e virtuali, lo schermo attraverso cui vediamo il docente e i compagni supera quei limiti di spazio e di tempo, ma simultaneamente soppianta i rapporti concreti.

Ci troviamo soli, seduti ad una scrivania con davanti a noi un monitor attraverso cui scopriamo il mondo. Possiamo anche attivare la nostra videocamera e il microfono per intervenire, sperando che la connessione non salti proprio in quel preciso istante, e di cento parole ne vengano trasmesse e comprese tre. E pensare che fino ad un anno fa genitori di molti minori dovevano firmare liberatorie per trasmettere le immagini dei loro figli per eventi scolastici, mentre oggi i volti e le case di tutti sono finiti sul web. Sicuramente (speriamo) si tratta di piattaforme sicure di trasmissione, ma sembra che si sia perso di vista, e non poco, il concetto di privacy e di tutela del minore.

Dobbiamo augurarci anche che la connessione non si perda nel clou del concetto del docente, che a sua volta sta faticando per trovare il modo più accattivante e pregante di esprimerlo. Perché quanto può essere difficile spiegare l’immensità delle letteratura, della scienza, della storia attraverso lo spazio limitato di un quadratino?

Ma soprattutto come far sentire dei ragazzi, i più coinvolti in questa situazione, considerati, chiamati e presenti ad una lezione? Questa è la grande sfida già in una classe in presenza, ma come riuscirci attraverso la didattica a distanza?

La lontananza fisica a volte non significa per forza una mancanza di connessione tra cuori e teste, però qui si tratta di una distanza nuova, che ci fa sentire connessi ma allo stesso tempo soli. Che strano paradosso.

Ora che l’aula è diventata virtuale, come si fa a suscitare voglia, a trasmettere verità e passione per ciò che si insegna e si apprende?

Gli adolescenti quando sentono odore di verità non mollano più la presa, ma come insegnare la linearità, l’attesa, la realtà se questa è trasmessa virtualmente? Soprattutto nella terza fase dell’intelligenza, dove alla linearità è stata sostituita una una simultaneità esponenziale, come incentivare la concentrazione, se forse è stato proprio lo strumento elettronico a disincentivarla, facendoci essere sempre altrove rispetto a ciò che viviamo?

Faccio tutte queste domande perché di fronte alle novità non ci possono essere risposte immediate ed esaustive, ma solo numerosi quesiti, e soltanto il tempo potrà rivelare danni e benefici, pro e contro.

L’uomo, è risaputo, è un animale sociale, ha bisogno di confronto diretto, non di isolamento, di contatto, non di simulazioni del reale, di empatia, di sguardi, di odori, di vita.

La prima scuola è quella delle relazioni tra persone. Attraverso gli altri ci si conosce e riconosce. Se si isolano menti e cuori, come può allora esserci dibattito e crescita personale? Come ci si può sentire nel mondo se non lo si conosce in maniera diretta ed attiva?

Il tragitto per andare a scuola, l’intervallo, la campanella, imprestarsi libri, matite, merende e potremmo continuare all’infinito, quanto privano psicologicamente ed emotivamente chi si sta affacciando alla vita?

L’uomo del XXI secolo è davvero destinato solo più alla tecnologia per sopravvivere, per conoscere e per relazionarsi?

In questo tempo di simultaneità abbiamo bisogno di imparare la pazienza, quella che ci condurrà alle risposte alle nostre mille domande. A gestire l’urgenza delle emozioni, sempre più forte e rapidamente soddisfatta, ma sempre meno soddisfacente. E soprattutto non dobbiamo assuefarci a questa nuova realtà malsana e alienante.

Ma di certo non può esserci vera didattica se ci sono scompensi relazionali.

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