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Leggo con gioia su CulturaIdentità il progetto delle Città Identitarie con il Manifesto lanciato due anni fa a Civita di Bagnoregio perché sono anni che sento parlare di politiche per la promozione di uno sviluppo sostenibile dei borghi italiani ma puntualmente, tranne gli sforzi di pochi, vedo sostanzialmente promuovere l’immagine di scorci pittoreschi in pietra con finestre e balconi adornati da gerani, che attraggono il turista del selfie ed il tentativo, con incentivi ed investimenti pubblici, di trasformare i nostri borghi in alberghi diffusi per un turismo lento ed esperienziale.
Ma i nostri Borghi sono davvero solo questo? E’ davvero soltanto questa la risposta che si può offrire allo spopolamento endemico, alla scarsità di offerta lavorativa professionale, alla mancanza di servizi di base?
ECCO LA FONDAZIONE CITTA’ IDENTITARIE
I nostri borghi non sono una Disneyland a cielo aperto o bomboniere da proteggere in una campana di vetro, sono luoghi reali, ove si è preservata per secoli quell’identità locale che rende meravigliosamente multiculturale la nostra italianità. Sono la casa per oltre il 15% dei cittadini italiani. Sono i luoghi della nostra storia, i luoghi in cui si è creato il Made in Italy, la nostra industria manifatturiera. L’inversione di tendenza non può essere affidata ad un turismo inevitabilmente stagionale ed i suoi indotti. Non tutti i borghi hanno una vocazione turistica e non tutti potrebbero vivere solo di turismo. La competizione premierebbe inevitabilmente alcuni e non altri, con tutte le conseguenze socio-economiche di un pessimo investimento.
E’ necessario mettere in campo politiche integrate a livello nazionale, sviluppate a livello regionale e declinate a livello locale, che prendano le mosse da valutazioni sulla vocazione del territorio, la necessità di differenziare investimenti e ridurre i divari (anche tecnologici) all’interno della nostra penisola e tra l’Italia ed il resto del mondo. Non si può pensare di creare una nazione competitiva se si esclude dalle politiche di sviluppo del brand Made in Italy i nostri Borghi, i piccoli comuni al di sotto dei 5.000 abitanti. Si escluderebbero realtà che hanno grandi numeri. Sono ben 5.535 i piccoli comuni, che rappresentano il 70% delle amministrazioni comunali italiane ed i loro territori coprono, in alcune regioni, fino al 70% del totale. La cosiddetta Italia minore ha un potenziale enorme, come la storia ci insegna.
La settima potenza manifatturiera mondiale, l’Italia, ha una storia che affonda le sue radici nel Medioevo e che vedeva protagonisti anche i piccoli centri della nostra penisola.
Tra il 1300 ed il 1400, quando l’industria manifatturiera italiana incominciò ad imporsi al di là dei confini locali, in Italia i comuni che contavano circa 5.000 abitanti erano considerati città o quasi-città ed erano spesso centri produttivi e commerciali importanti, che trainavano l’economia di un intero comprensorio, creando veri e propri distretti industriali. Come ad esempio Fabriano, conosciuta per la produzione della carta. Da lì proveniva il 60% della carta utilizzata a Roma in seguito all’aumento della domanda dopo introduzione della stampa. La produzione della carta ‘bambagina’ fabrianese, com’è noto, era imponente e animava importanti flussi internazionali, tanto che la fabbricazione della carta, si era estesa su tutto il territorio e anche oltre; nelle vallate adiacenti, come in quella del Potenza dove acqua corrente ce n’era in abbondanza, a Pioraco e a San Severino. Questo successo diede vita alla creazione di un vero e proprio distretto, che richiamava maestranze anche da fuori territorio. Allo stesso modo nell’industria calzaturiera, in alcuni centri delle Marche centromeridionali – Recanati, Macerata, Montegiorgio e Tolentino, Jesi (tutti a tratti al di sotto dei 5.000 abitanti tra il 1300 e 1600) – impiegava un buon numero di artigiani specializzati e garantiva esportazioni a largo raggio. Sia nei centri “maggiori” che nei centri minori, gli addetti al settore della lavorazione dei cuoi e delle pelli erano numerosi.
Complessivamente Le Marche, ed in generale il litorale adriatico era caratterizzato da una vivace economia degli scambi marittimi, per cui si esportavano prodotti agricoli – frumento, olio, e vino – soprattutto verso Venezia, ma anche verso la Dalmazia e si importavano merci di materie prime – metalli, cuoi e pelli – provenienti dalla penisola balcanica, che venivano dunque lavorati nel marchigiano ed altre zone. Il territorio dunque aveva trovato la sua vocazione e questa vocazione manufatturiera, che alimentava indotti ed integrazioni orizzontali e verticali e sinergie con gli imprenditori ed investitori delle grandi città.
Nei borghi che si snodavano lungo la via Francigena, da nord al sud dell’Italia, o si trovavano in zone di confine, forte era invece la vocazione commerciale, basti pensare a San Gimignano in Toscana o Sarzana in Liguria che si trovava nella posizione di incrocio tra via Romea Francigena verso Roma e via Compostellana verso Santiago. Su tutto il tratto della via Francigena nacquero mercati importanti. Allora nei mercati si comprava di tutto ed erano importanti crocevia per l’importazione ed esportazioni di merci; e nei territori circostanti, che a volte offrivano poco, ci si dedicava all’attività artigianale o agricola, in modo tale da sfruttare al meglio le opportunità offerte dai mercati di frontiera e sparsi lungo le vie commerciali.
Altrettanto istruttivo, è il caso di Arezzo, della sua manifattura tessile e dei suoi scambi, lungo tutto il basso Medioevo e prima età moderna. Arezzo una civitas che dopo la metà del XIV secolo scese sotto la soglia dei 5.000 abitanti, collocata in una ‘regione economica’ che comprendeva un reticolo di ‘cittadine e borghi’ dell’alta Val Tiberina, del Casentino e ancora delle Marche settentrionali, attiva nella produzione di abiti in lana, cotone, lino, unitamente alla confezione di drappi in seta più o meno raffinati, ha di fatto dominato la storia della manifattura tessile europea del tempo. In questo contesto si inserivano altri “piccoli centri” che svilupparono specifiche vocazioni che consentirono loro di inserirsi nel circuito tessile con investimenti nella coltivazione di piante tintorie e nella manifattura tessile. In particolare, riguardo alle materie tintorie, a Cascia si puntò sulla produzione dello zafferano che, sostenuta con l’esenzione dal pagamento di oneri quali, divenne una delle risorse più importanti dell’economia favorendo lo sviluppo e il miglioramento della manifattura tessile. A Norcia invece fu lo scotano, destinato alla concia del cuoio, ricavato dall’omonimo albero, ad avere un ruolo preponderante attestato, fra l’altro, dall’esistenza di una specifica arte, quella dei ‘pistatori di scotano’. In tal modo i due centri della Montagna (anch’essi al di sotto dei 5.000 abitanti) si inserirono nel sistema di produzione e di scambi interregionale puntando su colture specializzate e sulla manifattura.
Questi solo pochissimi degli esempi virtuosi di piccoli centri che hanno contribuito alla storia del Made in Italy, allo sviluppo di specifiche vocazioni che consentirono al altri di inserirsi nel loro circuito e trarne vantaggio, creando economie di zona scalabili e sostenibili anche nel tempo. Questo modello se volessimo replicarlo oggi in modo organico richiederebbe sicuramente molto tempo, invece, in questo momento storico, sarebbe utile far buon uso dei fondi del PNRR, dando una spinta di indirizzo dall’alto verso il basso nello sviluppo di economie di zona, di circuiti o distretti che creino sinergie tra piccoli e grandi centri. Queste politiche di sviluppo territoriale dovrebbero prendere le mosse dal governo centrale, essere sviluppate a livello regionale con la collaborazione delle autorità locali coinvolte, e dunque declinate a livello locale, in modo da accelerarne il processo; e non il contrario come spesso richiesto dagli avvisi pubblici PNRR alle autorità locali, che non hanno le risorse per realizzare progetti integrati che coinvolgano interi territori.
Da un’attenta analisi si potrebbero identificare i territori in base alle loro vocazioni attuali o potenziali, siano esse turistica, manufatturiera, agro-alimentare, commerciale o anche in ambito tecnologico. Soffermandomi su quest’ultimo, attraverso la creazione in quei territori strategicamente posizionati rispetto alle vie di comunicazione, di hubs tecnologici, si potrebbero colmare gaps di formazione e di domanda ed offerta di servizi e prodotti tecnologici tra i grandi ed i piccoli centri, si rivitalizzerebbero certe economie locali, decongestionerebbero i grandi centri ed offrirebbero anche ai giovani dei piccoli centri opportunità di lavoro qualificato in ambito tecnologico. Creando, dunque, davvero le opportunità per un’inversione di tendenza, che stimolerebbe personale qualificato a stare o andare a vivere nei piccoli centri. Del resto chi dice che le nostre Silicon Valley debbano essere create nei grandi centri urbani! La transizione tecnologica italiana non può non includere il 70% del nostro territorio se l’Italia vuole essere davvero competitiva.
I nostri borghi hanno dimostrato di poter essere una forza motrice dell’economia nazionale. Assicurare la loro sostenibilità nel futuro significa fare pianificazione territoriale integrata al fine di restituirgli un ruolo attivo a beneficio di tutto il sistema Italia.


















ancora a credere a queste balle???? andate voi ad abitare a Valnegra. o cessapalombo o cinigiano o rocca d’arce