Megalopolis è uno squarcio, un frammento del cinema contemporaneo che vuole a tutti i costi polarizzare. Lo si potrà amare o odiare. È il frutto amaro e immenso di un regista che ha aspettato una vita (dagli anni di Apocalypse Now, 1979) per completare il suo testamento spirituale costato la bellezza di 120 milioni di dollari finanziati di sua tasca. Una provocazione caotica ed intensa che si dipana tra un’autobiografia decisamente affiorante, forme simboliche dell’antico e perciò del contemporaneo, utopia, illusioni e tanta filosofia.
Megalopolis racconta di un’epopea, ambientata in una New York concepita come Nuova Roma, in un’America moderna e corrotta che rimanda ai fasti, all’eccesso, al potere e al declino della civitas Caput Mundi. È evidente la domanda sottesa del regista: gli Stati Uniti replicheranno il modello di autodistruzione dell’Impero Romano?
Come in tutta la grande epica, la trama è apparentemente semplice. A scontrarsi sono sempre due fazioni, che incarnano valori diversi e opposte concezioni del mondo. Così avviene nella vicenda di Coppola: sulla scena un architetto visionario, Caesar Catilina (Adam Driver), ha vinto il premio Nobel per la scoperta di un nuovo materiale, il “megalon”, con cui può ricostruire e plasmare una città ideale, più vicina alle esigenze della cittadinanza che si evolve, e il sindaco in carica Franklyn Cicerone (Giancarlo Esposito), amministratore conservatore che si pone in aperto disaccordo nei confronti delle rivoluzionarie idee di Catilina. A fare da cornice a questa dinamica a due si inserisce Julia (Nathalie Emmanuel), figlia del sindaco che, innamoratasi di Caesar Catilina, si trova a dover scegliere in chi riporre la propria lealtà e a chiedersi cosa merita, davvero, l’umanità.
Benché la storia possa sembrare apparentemente lineare, Megalopolis procede per associazioni simboliche, scene distopiche e psicotrope, deliri onirici; una trama che non si riesce né a raccontare, né a giudicare con troppa velocità. È un film che necessita di essere metabolizzato, come tutti i colossal di Coppola.
Le figure monumentali sulla scena richiamano archetipi universali: il grande architetto–costruttore che insegue l’utopia, un’energia conservatrice uguale e contraria che tenta di ostacolarlo, l’amore come forza che muove il mondo, l’antica Roma che ritorna prepotente nei nomi dei personaggi, nelle vesti, nella retorica, nelle scene di festa, nell’apoteosi della potenza ma anche della dissoluzione.
Gli echi platonici, le continue citazioni di Marco Aurelio, Rousseau, Dante, tragedie shakespeariane declamate a gran voce, sono l’espressione di un progetto complesso e mai banale. Caesar Catilina è l’oltreuomo nietzschiano dai nuovi valori “al di là del bene e del male”; la sua persona penetrante, a volte inquieta, di costruttore e architetto geniale rievoca decisamente, anche grazie ai tratti somatici affini, il visionario patron di Tesla e di Space X Elon Musk, che alla vigilia della vittoria di Trump ha postato non casualmente su X “L’America è una nazione di costruttori. Presto sarete liberi di costruire”. In entrambi i casi due uomini che, nonostante gli ostacoli del sistema degenerato e corrotto in cui sono calati, riescono a distruggere il vecchio per costruire il nuovo, combattono e rischiano per una società migliore, che guarda al futuro ma con la volontà di conservare l’umanità e l’amore che danno il senso alla vita (non è strano che la pellicola si concluda con il frutto dell’unione tra Catilina e Giulia, la bambina neonata simbolo di rinnovamento e speranza).
Insomma, Coppola ha partorito un film inafferrabile, non catalogabile, un miscuglio immenso e tragico di tutti i generi. Megalopolis si apre con la seduzione del vuoto, la vertigine del precipizio esposta in una scena mirabilmente fantascientifica. In cima a un grattacielo (che somiglia al capolavoro dell’art deco Chrysler Building di New York), Caesar Catilina si sporge pericolosamente ma proprio quando sta per perdere l’equilibrio ordina “Time, stop!” e il tempo si ferma dandogli modo di ricomporsi. Interessante (e da meditare) il fatto che l’architetto visionario possa fermare e congelare il tempo nel suo svolgersi. Si ferma non solo il tempo ma anche il moto: si potrebbe inferire che non c’è movimento senza tempo? Se il tempo si può fermare, siamo eterni, prometeici? Domande primigenie di un regista inquieto, ipertrofico, ormai alla fine di una lunga carriera, che riflette non solo su chronos, ma sulla coscienza, sul futuro, sull’ideale, sull’utopia e lo fa lanciando immagini fugaci, caotiche, volutamente esagerate, che intrecciano amore, odio, follia, scandali e anche morte (la moglie defunta di Catilina, che compare svariate volte nella pellicola è la moglie di Coppola, Eleanor, scomparsa pochi mesi prima della presentazione del film a Cannes).
L’oceano di immagini, di costumi, l’esuberanza dei baccanali, l’estetica altisonante sembrano coprire a volte la ricchezza semantica del progetto di regia, ma è un’illusione. Coppola alterna una comunicazione di concetti sottile e letteralmente mascherata ad una retorica maestosa, intrisa dell’enfasi delle orazioni latine e shakesperiane. Oltre alla classicità, non mancano derive drammaturgiche di matrice politica che appaiono evidenti nell’interpretazione di uno Shia LaBeouf in stato di grazia nei panni del pazzoide Clodio, congiurato assetato di potere e cugino di Catilina. È il nipote esibizionista del ricchissimo banchiere finanziatore dei progetti di Catilina, Hamilton Crasso III (Jon Voight), odia il cugino per i suoi successi e si pone demagogicamente a capo delle rivolte contro la costruzione di Megalopolis, arringando la folla con la frase “Sic semper tyrannis!”, pur essendone l’epitome.
Insomma, Megalopolis è una profonda riflessione sul desiderio umano troppo umano di lasciare un’impronta, di costruire qualcosa di grande e duraturo. E a tal proposito entra in gioco anche la riflessione estetica sull’architettura, vista come forma d’arte monumentale e perenne, in grado di resistere al tempo e, in qualche modo, congelarlo. Ad un certo punto compare la frase di Goethe “l’architettura è una musica congelata”: in queste poche parole c’è il senso della Megalopolis che si vuole generare a partire dal megalon, una urbs che possa diventare civitas. Nell’utopia di Catilina non c’è solo la volontà di ridare una nuova forma urbanistica e strutturale a New York, ma soprattutto di creare una dimensione sociale e umana in cui i cittadini possano coltivare sogni, ambizioni, idee, generando così un’architettura musicale, di materia e pensiero. Sulla scorta di tali suggestioni, si percepisce che il nome della nuova città non indica solo il suo essere grande, ma il suo essere “fatta della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”, come lo stesso Catilina dirà verso la fine durante il suo discorso di inaugurazione della città citando Shakespeare per la seconda volta: Megalopolis sarà creata a partire da un materiale che si trasforma, che si adatta e che realizza i (bi)sogni degli individui. E proprio da questa capacità cangiante e dinamica del megalon affiorano con veemenza la velocità e il vitalismo della Caffeina d’Europa, Filippo Tommaso Marinetti, che in più di un’occasione sembra aver ispirato con la sua energia e il suo sguardo rivoluzionario la visione futuristica di Caesar Catilina.
Questa magniloquente opera di Coppola non può essere compresa né con velocità né da tutti, e non per classismo ma perché senza gli adeguati strumenti non si riescono a cogliere le stratificazioni concettuali, i rimandi letterari, filosofici, storici che rimangono celati ad una prima percezione superficiale ma che, nel bene e nel male, sono il risultato di quarant’anni di gestazione artistica intensa e unica. Se è vero che solo il tempo darà ragione (o torto) a Coppola, non si può non affermare che il regista lascia al cinema una sostanza importante, magmatica e non facile, prevedibilmente da molti non apprezzata ma che difficilmente non si è già ritagliata uno spazio nella storia della cinematografia.