I risultati delle elezioni USA dimostrano, se ce ne fosse stato bisogno, che il trumpismo non è una meteora, ma un fenomeno destinato a segnare la nostra epoca.
A fronte di quella che può essere definita la prima fase della globalizzazione abbiamo qui un movimento ricorsivo che evoca identità nazionali e religiose, popoli e tradizioni. Trump proclama: “America First!”, difendendo il made in USA dalla concorrenza cinese, e sprona all’orgoglio nazionale ripetendo: “Facciamo di nuovo grande l’America!”.
La Harris, come Biden e come Obama, non infrangeva quella regola di stile che si chiama “politically correct” con i suoi assiomi postilluministici e le sue post-verità: laicismo, immigrazionismo, terzomondismo, ecologismo etc… Trump di contro sbandiera altre verità: protezionismo, nazionalismo, richiamo alle tradizioni anche religiose. Esterna istanze identitarie compresse e colpevolizzate rappresentando, anche in modo discutibile e contraddittorio, qualcosa di radicato nei sentimenti più profondi del suo popolo.
Divisivo, fuori dagli schemi, proveniente dall’anti-politica, si rivolge a quella che i progressisti chiamano sprezzantemente la pancia dell’elettorato, e che infelicemente, ma con disinibita schiettezza, Biden ha chiamato spazzatura, quella stessa che in Europa alimenta i populismi impudentemente avanzanti con Marine Le Pen quasi sospinta all’Eliseo, Orban al governo in Ungheria, e la Meloni presidente del Consiglio in un Paese chiave come l’Italia. Un vento gonfiato dall’allarmismo sull’immigrazione (secondo loro), dal complottismo strumentale e così via, secondo una lettura dei fatti che crede di ammansire le criticità demonizzando l’avversario.
É una rottura di stile e di linguaggio, usando quest’ultimo come una clava per sparigliare giochi e scandalizzare i benpensanti con i mass media a fargli da gran cassa e a favorirlo, loro malgrado. Né sono solo parole, perché dietro c’è la capacità di intercettare il consenso catalizzando il malcontento serpeggiante anche in settori dell’elettorato altrimenti avversi: i neri, gli ispanici etc.. Un fenomeno che somiglia al berlusconismo per la straordinaria resilienza del personaggio e la capacità di rovesciare i sondaggi della vigilia.
Cosicché anche stavolta il tycoon sembrava avere tutti contro: establishment politico (anche nel suo stesso partito) ed economico, i giudici, la tecnocrazia, gran parte della finanza internazionale, i radical chic di ogni latitudine, attori e cantanti dello star system, nonché gran parte dei media. Ma, alla fine, ha avuto ragione lui e ha stravinto.
Sconfitto, manco a dirlo, è lo schieramento progressista, con la sua politica mellifluamente cinica, quell’ipocrisia globale che in nome della democrazia ha seminato guerra e morte, distruzione e caos. Cosicché il mondo, alla fine dell’amministrazione Biden, si trova precipitato in una nuova guerra fredda per il conflitto in Ucraina, a rischio di deflagrazione mondiale per la guerra a Gaza, con l’America palesemente impotente nel suo tradizionale ruolo di mediatore internazionale. E poi la Cina con le sue mire su Taiwan e poi la Nord Corea etc…
Da parte sua, Trump sul problema immigrazione è entrato a gamba tesa annunciando di rimpatriare 12 milioni di immigrati clandestini, suscitando sdegnate reazioni in diverse parti del mondo. Ma l’immigrazione non regolata e non controllata è un problema vero a fronte del quale tutte le politiche ideologiche si sono rivelate contraddittorie e fallimentari. E qui il progressismo ad ogni latitudine è perdente.
E poi c’è l’aborto che vedeva saldamente schierata dalla parte abortista la candidata democratica cavalcando note argomentazioni ad effetto sui diritti e la libertà della donna e caldeggiando l’aborto fino alla 24esima settimana. E poi ci sono le battaglie Lgbt e la lotta al riscaldamento globale.
Dall’altra parte Trump a inquietare con i suoi slogans irruentemente regressivi, sostenuto da decine di milioni di cattolici, non solo, quindi, da frange e settori tradizionalisti dello schieramento “pro-life” americano, con l’effetto di rompere una sorta di tacito patto di desistenza stabilitosi col mondo liberal in materia di aborto.
L’immagine vincente del Trump, alla fine, è quella del Presidente che si rialza, nonostante la pallottola che l’ha ferito all’orecchio, e che incita i suoi a lottare.