“Non sono ricattabile, oggi come ieri”. Non usa mezzi termini il premier Giorgia Meloni, commentando la notizia di iscrizione di una denuncia emessa nei suoi confronti, dei ministri Piantedosi e Nordio e del sottosegretario Mantovano.
La denuncia, depositata dall’avvocato Luigi Li Gotti, con trascorsi politici a sinistra e definito dalla stessa Meloni “molto vicino a Romano Prodi”, riguarda il caso dell’estradizione del comandante della polizia giudiziaria libica Najeem Osama “Al Masri” Habish. Almasri è stato accusato dalla Corte penale internazionale di essere responsabile di uccisioni e torture avvenute in un carcere libico: il mandato di arresto è arrivato durante la permanenza di Al Masri in diversi paesi europei, più o meno mentre passava il confine con l’Italia. Qui da noi Al Masri è stato arrestato, lo scorso 19 gennaio. Il 21 seguente è stato estradato il Libia, sollevando un polverone di polemiche.
Il non detto è che ci si trovi davanti all’ennesimo caso di intervento di una parte della magistratura nelle scelte della politica, e non casuale sarebbe il fatto che il magistrato che ha firmato la notizia di iscrizione della Meloni, di Nordio, Piantedosi e Mantovano è quello stesso Francesco Lo Voi che accusò Matteo Salvini di “sequestro di persona” in relazione al caso della nave Open Arms.
L’atto ha un sapore tutto politico, perché la procedura prevede che entro 90 giorni il Tribunale dei Ministri, svolte le indagini preliminari, emetta o meno l’autorizzazione a procedere nei confronti degli indagati. Autorizzazione che verrà chiesta al ramo del Parlamento di competenza di ciascuno dei quattro. Qui il giudizio diventa strettamente politico (nel senso alto del termine), perché la giunta appositamente convocata valuterà se la Meloni e gli altri inquisiti abbiano agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o per il perseguimento di un preminente interesse pubblico. Nei quali casi, evidentemente, negheranno l’autorizzazione a procedere, riducendo l’intero procedimento a una mera polemica.
Cosa che sembra già nelle corde dell’intera vicenda. Dall’opposizione, Elly Schlein si guarda bene dal chiedere le dimissioni della Meloni o dei suoi ministri indagati, ma si limita a un debole, ancorché petulante “non si sottragga, riferisca in aula”. Fermo restando sacrosanto il principio che il Parlamento possa chiedere in ogni momento conto ai ministri del loro operato, che dettagli differenti sulla vicenda “al Masri” da quelli già ripetuti ad nauseam si spera d’ottenere da questo ennesimo interrogatorio?
Tutto dunque sembra convergere verso l’ordinaria fuffa politica, per tenere un po’ alto il volume della polemica senza altro costrutto che puntare a qualche zerovirgola di differenza nel prossimo sondaggio.
Certo è che allargando un po’ la panoramica non si può non notare come questa ennesima carta bollata arrivi nel pieno delle polemiche per la riforma della giustizia voluta dal ministro Nordio, con i magistrati che agitano la Costituzione, dimenticando che proprio nella Carta è scritto che la “sovranità appartiene al popolo”, e che il popolo, votando una maggioranza sulla base di un programma, le ha dato un mandato informale di portare avanti quella tanto sospirata rivoluzione che una volta per tutte separi davvero i poteri dello Stato, impedisca improvvide invasioni di campo e assist a favore di una squadra da parte di chi dovrebbe fare l’arbitro o il guardalinee e non sfiorare neppure il pallone.
Questo “sistema”, già denunciato ampiamente proprio qui su “CulturaIdentità” all’uscita del libro di Palamara, continua a restare una delle palle al piede della democrazia – in Italia, ma anche negli Stati Uniti, come dimostra la valanga di atti giudiziari con cui i magistrati d’oltreoceano stanno cercando di sabotare l’azione di governo di Donald Trump. Mentre la maggioranza silenziosa dei giudici continua a lavorare negli interessi del popolo, una parte continua a essere convinta di aver ricevuto un’investitura che consente loro di travalicare i recinti costituzionali che separano i poteri dello Stato. Lo fa sulla base di un’“etica delle intenzioni” – definizione che rubiamo ad Adriano Scianca e Guido Taietti – secondo la quale la “bontà” dell’intenzione giustificherebbe ogni mezzo impiegato per raggiungere lo scopo. Beninteso, che l’intenzione sia “buona” lo stabiliscono coloro stessi che la propugnano, stabilendo così un doppio standard fra loro, i “buoni”, per i quali la legge si interpreta e se del caso si ignora o si scavalca, e gli altri, i “cattivi”, nei confronti dei quali la legge si applica in tutta la sua durezza, e se non è abbastanza dura se ne inventa una più spietata ad hoc. E pensare che basterebbe aver passato un paio di esami di legge al primo anno d’università per capire che un diritto così impostato è la morte della civiltà giuridica faticosamente costruita per venticinque secoli…