E anche il Museo Pigorini si unisce alla narrazione woke…

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Le meritorie domeniche gratuite ai musei statali possono portarci a visitare tesori nascosti del nostro patrimonio culturale, ma anche scoprire che i soldi delle nostre tasse possono essere spesi per raccontare agli italiani una storia parziale e calunniosa del loro passato, mortificarli e convincerli (a torto) che c’è qualcosa di cui dovrebbero vergognarsi in saecula saeculorum. In sintesi, una narrazione woke.

Questo accade da qualche tempo attorno alla storia del nostro passato coloniale, iniziato nel 1869 con l’acquisto della Baia di Assab da parte dell’armatore Rubattino (quello che prestò le navi a Garibaldi per l’Impresa dei Mille) e terminato 91 anni dopo a Mogadiscio con la cerimonia di passaggio di consegne fra l’Italia – ex potenza coloniale – e il nuovo governo della Somalia, che il nostro paese aveva accompagnato all’indipendenza nel dopoguerra per mandato delle Nazioni Unite (unica nazione sconfitta nella Seconda guerra mondiale ad avere un mandato ONU, e scusate se è poco).

A Roma, quello che un tempo era il venerando Museo Nazionale Preistorico Etnografico è dal 2016 parte del “Museo delle Civiltà” (la “e” corsiva non è un errore, ma un ammiccamento alla pluralità. Marketing wokeista, insomma). Domenica 5 novembre il museo era affollato di visitatori, fra cui moltissimi bambini: almeno una classe delle elementari, con relativa maestra, e due gruppi di famiglie con al seguito uno nutrito stuolo di piccoli, curiosi soprattutto (e non poteva essere altrimenti) di vedere la parte preistorica del museo. All’interno del quale, poi, oltre alle collezioni originarie hanno trovato spazio anche quelle dell’ex Museo Coloniale, una delle tante istituzioni cancellate a partire dall’epoca di Mario Monti con la scusa dell’austerity.

Ma l’accorpamento dei due musei – che anche avrebbe un senso, vista la natura originaria del “Pigorini” – è ora sfruttato per imporre una narrazione wokeista, antinazionale e ai fatti antistorica del nostro passato coloniale. Si parte dal sito del museo, dove si parla di «“imprese” coloniali italiane», messe spregiativamente fra virgolette, facendo capire fin da subito che il punto di vista del museo non è affatto neutrale, ma denigratorio. Scopriamo dunque che è su queste collezioni è impegnato un gruppo di lavoro (incaricato in epoca Franceschini dal ministero della Cultura) che comprende anche “artisti, scrittori, attivisti e componenti delle comunità locali”. In altre parole, al lavoro scientifico di catalogazione in vista della fruizione del pubblico è affiancato uno sforzo di narrazione, affidato a categorie – come gli “attivisti” – che abbiamo già imparato a conoscere, e temere. E infatti, fin dall’ingresso, nel salone d’onore il visitatore viene accolto prima da un enorme ma malconcio plastico dell’EUR e subito dopo da una “opera d’arte” che intende rovesciare l’effimero trionfo italiano in Etiopia, nel 1936. All’interno, poi, è stata allestita una mostra, il cui nome già è tutto un programma: “Museo delle Opacità”.

Inaugurata lo scorso giugno e composta da alcune opere d’arte africana celebrative dell’Impero d’Etiopia (quello dove gli italiani hanno abolito la schiavitù nel 1935, per intenderci. Ma il dato non è presente, curiosamente) è apertamente denigratorio della nostra esperienza coloniale. È significativa la presenza di opere dell’artista etiope Balacciaw Yimar, tipiche illustrazioni a quadri di scene di vita quotidiana e politica. Perché significativa? Perché molti di noi ricorderanno sui libri di storia di quando eravamo ragazzini un’opera analoga in cui veniva illustrata l’applicazione della giustizia nello Stato abissino: taglio di mani e piedi, mutilazione di orecchie e naso, lapidazioni, marchiature coi ferri roventi, roghi, impiccagioni di massa… Questa tavola, altresì conservata fra le collezioni dell’ex Museo Africano, è stata accuratamente evitata nella narrazione del “Museo delle Opacità”. Non sia mai.

La tavola dimenticata fra le varie “opacità”…

Così, se perfino la cartografia italiana viene spregiativamente descritta come qualcosa di negativo, l’Impero Etiope viene invece descritto in maniera agiografica. Ovvero si fa l’esatta operazione opposta a quella della propaganda di guerra italiana degli anni Trenta: noi buoni, loro cattivi. Non male per una mostra che dovrebbe invogliare alla “riflessione”.

In ogni caso, l’intero museo è devoto a simili operazioni di stampo wokeista. La parte paleontologia è riempita di astruse tavole concettuali di propaganda decostruzionista, intersezionalista e gender mentre una mostra temporanea è dedicata a un’attivista anti-coloniale mozambicana. L’installazione, una stanza posticcia con le pareti coperte di scritte, viene significativamente commentata da uno dei piccoli visitatori (forse di cinque-sei anni), che dice: “Zio, hai visto? Qualche zozzo ha scarabocchiato tutti i muri!”. Anima santa…

Lo sfruttamento dell’“arte” contemporanea come strumento di propaganda sembra essere diventata la cifra stilistica di questo museo. Del resto, il ricchissimo curriculum dell’attuale direttore, disponibile sul sito dell’istituzione, mostra una lunga esperienza di tutto rispetto in questo campo. Ma ancora una volta, spiare le voci dei bambini ha dato un elemento di lettura ulteriore e più veritiero: “Ti è piaciuto il museo?” chiede una mamma al piccolo, in età di elementari. La risposta secca è stata “No”. La struttura, infatti, ha speso moltissimo delle proprie energie nelle installazioni “artistiche” mentre l’esposizione dei reperti (il vero tesoro del museo) continua a essere quella tradizionale, a metà fra wunderkammer e raccolta antiquaria. Perfino la sezione paleontologica, alla decima teca piena di asce eneolitiche, comincia a essere noiosa anche per un adulto che si occupa di questi temi professionalmente.

E pure la sala in cui sono conservati i fossili (fra cui alcuni piccoli dinosauri italiani, che potrebbero essere la passione dei visitatori più giovani) è ammorbata dall’“arte contemporanea”: un rumore assordante si ripete ciclicamente e ossessivamente, rendendo la visita fastidiosa e accelerando la voglia di fuggire dalla sala il più presto possibile.

E così il visitatore esce. Ci si scambiano sguardi d’intesa col personale di sala (specie il poveraccio assegnato al salone con “l’installazione sonora”…) e con gli altri presenti, mentre, guadagnando l’uscita, si nota che il malconcio plastico dell’EUR che ci aveva accolto all’entrata, oltre che sfondato in più punti, è stato privato del pezzo più pregevole, il Palazzo della Civiltà Italiana, noto ai più come Colosseo Quadrato. Il fatto che si siano trovati fondi per le “opere d’arte” wokeiste che dovrebbero propagandare intersezionalismo e decostruzionismo nonché “decolonizzare” la nostra storia, ma non per restaurare un pezzetto di gesso di 10 cm d’altezza dovrebbe aprire, questo sì, una profonda riflessione su come abbiamo deciso di raccontarci il nostro passato e vivere il nostro presente. Get woke, go broke: mai adagio (specie se tradotto letteralmente) fu più adeguato.

Foto: Gustavo La Pizza CC BY-SA 4.0 Palazzo delle Scienze all’EUR, Roma

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3 Commenti

  1. Bombardarli di testi sulla vera storia del colonialismo italiano.
    Io l’ho fatto già da tempo, non mi hanno dato retta evidentemente, ma se a farlo sono più persone, forse qualche problema se lo porranno. Se invece queste cose ce le diciamo tra i soliti allora è inutile. E soprattutto: qualcuno bempensante si decida una buona volta e dia da fare a laurearsi in storia, antropologia eccetera e poi a partecipare ai concorsi del Ministero della Cultura. Inutile lagnarsi se queste istituzioni sono controllate dalle persone sbagliate: bisogna andare a sostituirle, tanto loro la loro testa non la cambiano. E pazienza se lo stipendio è basso.

  2. Inquietante leggere il livello di depravazione e degenerazione messo in atto in questo museo dell’EUR. La speranza, ora che Franceschini non è più ministro, è che chi l’ha sostituito provveda al più presto a qualche avvicendamento, con l’impegno di invertire la deriva ideologica antistorica ed anti-italiana dei soliti noti (eloquentemente illustrata in questo articolo) che hanno trasformato un museo in una sorta di esposizione da centro sociale.
    Partendo con la ristrutturazione e ripristino di quel plastico dell’EUR-42.

  3. L’articolo sul Museo Pigorini è molto interessante anche per la capacità di cogliere errori museologici e falsità storiche da indizi sottili ed elementi sottotraccia ma soprattutto svelare l’arrendevolezza generale e la pavidità dei governi (anche attuale) e delle istituzioni culturali italiane di fronte all’assertività ed aggressività del “politicamente corretto”.
    Incoraggiato da queste epifanie, aggiungo due esempi sia del pubblico che del privato.
    Il primo riguarda un altro museo “delle culture”, quello comunale del MUDEC di Milano, dove, al termine di una ben curata e tutto sommato accreditabile esposizione di etnografia e di storia coloniale italiana, è stata giustapposta – quasi a disconoscere la serietà del lavoro museale e a denigrare ogni aspetto di una storia coloniale (italiana) fatta di colpe ed ombre ma anche di apporti di civiltà e di cultura che persistono ancor oggi anche nella mente, nella realtà e nella memoria locale – una sezione finale dedicata ad infamare non solo e non tanto Indro Montanelli per il noto episodio coloniale del suo matrimonio con una autoctona “minorenne”, quanto ad offendere la storiografia e la semplice logica (.. non si giudica il passato in base a principi di attualità).
    il secondo esempio concerne lo spazio espositivo di Venezia, della – generalmente meritevole – “Fondazione Prada”, dove fino al 26 prossimo è in corso una mostra ipocritamente dedicata all’arte del cambiamento climatico che di artistico ha proprio poco ma in compenso ha moltissimo di ideologico. Tanti pezzi d’arte che vorrebbero evidenziare il colpevole apporto antropico al riscaldamento climatico, supportati da apodittiche dimostrazioni del catastrofico surriscaldamento del globo causa co2 industriale e accompagnati da grossolane confutazioni delle contrarie evidenze storiche.
    Due siti paradossalmente da visitare come esemplari casi di guerra politica, tramite uso propagandistico delle istituzioni artistiche e culturali.

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