«Adesso combatterò per trovare gli altri nomi dei tuoi complici. Non era solo. C’erano altri che hanno rilasciato, che sono liberi e possono fare ancora del male perché fanno parte di una organizzazione criminale. Una parte di giustizia è stata fatta, ma solo una parte». Sono state queste le parole di Alessandra Verni, madre di Pamela Mastropietro, una volta venuta a conoscenza della condanna definitiva all’ergastolo per Innocent Oseghale, il nigeriano che ha violentato, ucciso e fatto a pezzi la diciottenne romana.
«Lo speravo. Devi marcire in quel carcere visto che non ti sei pentito per niente. Devi fare gli altri nomi», ha proseguito la donna. «Oggi la vittoria è per Pamela e Stefano (il padre della giovane, morto per un malore ndr). Ed è proprio con lei che, oggi, parleremo di una battaglia che dura da ben sei anni.
Signora Verni, lei ha detto che «sperava» in questo epilogo. Cosa l’ha portata a sperare anziché ad avere la certezza, o comunque un animo sereno, sul fatto che Oseghale sarebbe andato incontro a questa sentenza?
«Beh, dopo la decisione della scorsa volta, da parte della stessa Cassazione, che, nonostante tutto, aveva rimesso in discussione la violenza sessuale, non potevo certo essere tranquilla. Non si doveva arrivare a questo punto. È ‘assurdo».
Cosa ha provato in questi sei anni, soprattutto quando ha indossato la maglia che ritraeva l’immagine di sua figlia nel modo in cui l’aveva ridotta il suo carnefice? E cosa ha provato invece il 23 gennaio?
«Sono stata costretta a mostrare il corpo martoriato di mia figlia per disperazione. La gente doveva sapere cosa realmente fosse accaduto, in quell’appartamento di Macerata, quel maledetto 30 gennaio 2018. Ci sono molti che ancora non sanno di cosa stiamo parlando; eppure, tra di essi, vi è chi esprime giudizi senza senso e, spesso, offensivi nei confronti di Pamela. Il 23 gennaio scorso è stato una liberazione, anche se, come detto prima, si poteva decidere il tutto, e nel giusto modo, già lo scorso anno».
Al suo fianco c’era anche Barbara, la mamma di Desirée Mariottini, un’altra madre che sta vivendo il suo stesso dolore, in quanto anche a lei, un gruppo di extracomunitari ha violentato e ucciso la figlia di soli 16 anni. Per di più, anche in quel caso, il crimine efferato, si è consumato in un ambiente fatto di droga e spacciatori. Da donna e da madre, che rapporto si è instaurato con chi, come lei, sta vivendo questo calvario?
«Un rapporto che, come ha detto lei, accomuna due madri che han visto le loro figlie uccise nel modo e nei contesti che sappiamo. Noi sì, condannate dall’ergastolo di gran dolore, dal quale non avremo alcuno sconto, a differenza dei vari carnefici».
Da italiana, invece, viste queste vicende macabre, quali sono, a suo avviso, gli errori commessi dalla politica? E, di conseguenza, cosa dovrebbe fare la politica per prevenire simili orrori?
«Beh, da cosa sia stata causata la morte di Pamela, così come quella di Desirèe, o altri gravi crimini commessi a danno di ragazze e donne, è cosa ormai nota. Amo pensare, quindi, a ciò che la politica potrebbe fare, ossia migliorare le norme che hanno dimostrato di essere imperfette o, addirittura, inesistenti. Da quelle che regolamentano le comunità terapeutiche, ai Sert, ad alcuni reati previsti dal Codice penale, che hanno pene troppo blande quando si verificano determinati fatti. Oltre, naturalmente, mettere un punto fermo all’immigrazione irregolare ed incontrollata, che ha davvero fatto grandi danni e continua a farli. Noi siamo pronti a metterci il nostro».
A proposito di politica, lei e la sua famiglia vi siete sentiti abbandonati dalle istituzioni o vi siete sentiti strumentalizzati da una parte della politica, come quella di destra, così come è stato denunciato dalla sinistra? Ma soprattutto, da donna e da madre come interpreta la condotta delle femministe che sul massacro di sua figlia hanno fatto poco e niente?
«Certa politica ha, indubbiamente, strumentalizzato la vicenda di Pamela e, in diversi, ci hanno costruito carriere. Sulle femministe credo che sia sotto gli occhi di tutti, in questo caso, come in altri, il doppiopesismo che permea certe sedicenti associazioni che dicono di battersi per determinati diritti e, quindi, la relativa loro ipocrisia».
Una tragedia familiare e un dramma nazionale, che non ha visto solo la forza di una madre ma anche l’audacia di chi non è solo il legale della famiglia Mastropietro ma è anche lo zio e padrino della vittima: Marco Valerio Verni.
«Ergastolo al tuo carnefice. Nel mio piccolo, all’inizio di questa diabolica vicenda, te lo avevo promesso. Ora, puoi riposare un po’ più in pace, accanto al tuo papà. Questa vittoria è dedicata anche a lui». Così l’avvocato Verni ha commentato la fine di una lunga battaglia contro il carnefice di sua nipote. Una battaglia che il legale ha descritto come una tempesta in cui la famiglia Mastropietro ha continuato a navigare verso la destinazione chiamata Giustizia.
Avvocato, a proposito di Giustizia, sulla base di questa vicenda come e quanto si può parlare di Giustizia?
«Beh, in linea generale, si deve sempre e comunque credere nella giustizia che, naturalmente, è cosa diversa dal giustizialismo. Poi, certo, a volte, essa delude. La verità processuale, in alcuni casi, non coincide con quella fattuale, o le pene irrogate, dal punto di vista delle vittime e dei loro familiari, spesso non sono quelle che ci si aspetta. Ciò non toglie che si possa pensare di risolvere in altro modo. Semmai, occorrerebbe sforzarsi di migliorare ciò che non va, con coraggio. Ma poi, puntualmente, si finisce con l’assistere ai soliti teatrini che tutto bloccano o che impediscono riforme di un certo tipo. Nel caso specifico, al di là della definitiva condanna di Oseghale, noi continuiamo a sostenere che costui poteva non essere da solo, quel maledetto giorno, in quell’appartamento: ci sono degli elementi ben precisi che ci portano a pensare ciò, oltre al buon senso che, chiaramente, di per sé, non sarebbe sufficiente. E, d’altronde, anche in alcuni atti processuali, tale ipotesi non sembra affatto escludersi. Così come vi sono dei dubbi sull’eventuale appartenenza dello stesso Oseghale a realtà associative Criminali».
Quali sono stati i momenti in cui la «tempesta» sembrava ormai insormontabile, non solo a livello legale, ma anche personale?
«I momenti duri sono stati diversi, ma ho sempre creduto nella bontà del lavoro svolto e del suo esito che, al dunque, sarebbe stato positivo. Non certo per una soddisfazione professionale, ma per regalare giustizia a Pamela ed alla sua famiglia, per quel che potesse contare. E, per molti versi, alla Civiltà, vera parte offesa, accanto a noi, in questa demoniaca vicenda: non a caso, in moltissimi, ognuno per come ha potuto, ci hanno sostenuto e dato forza, in questi lunghi anni. E, in tanti, ci chiedono, ora, di andare avanti, per noi e per loro».
In questi sei anni ha visto qualche passo avanti da parte della politica, ma anche dell’informazione per far sì che casi come quelli di Pamela non si verifichino più?
«Onestamente, e purtroppo, almeno per quella che è la mia percezione, direi di no. Dal punto di vista politico, vi è, spesso, solo strumentalizzazione e, al massimo, qualche riforma frettolosa, nata sull’onda di quella che definisco “emotività mediatica” e, per questo, infruttuosa in termini poi concreti. Idem dal punto di vista dell’informazione: al di là del momento di maggior interesse della notizia, manca, oggi, un vero e proprio giornalismo di inchiesta che, nel tempo, aiuti a cercare, magari, quegli aspetti che non sempre vengono subito alla luce, per vari motivi. Senza considerare che, oggi, è tutto volto alla vendita, a scapito, spesso, della qualità delle notizie: ricordo una volta, per farle un esempio, che, per raccontare proprio di Pamela e, nello specifico, del suo allontanamento dalla comunità dove essa era ricoverata, una giornalista di un importantissimo quotidiano nazionale ebbe a contestarmi la correzione che mi ero permesso di farle: in poche parole, le avevo detto che la suddetta (comunità) era, in realtà, “a doppia diagnosi”, e non, invece, come costei voleva scrivere, “per tossicodipendenti”. Alla mia contestazione, essa, anche in modo sgarbato, ebbe a dirmi che, giornalisticamente, era opportuno mettere come voleva lei (di più: suonava meglio!), anche perché i lettori, in caso contrario, non avrebbero capito. Eppure, sotto ogni punto di vista, la differenza tra le due definizioni, è importantissima. Nel caso specifico di Pamela, ad oggi rimaniamo in attesa di determinate risposte, ma non demordiamo».
Quali sono le vostre prossime battaglie, non solo nelle aule di tribunale, per combattere questi orrori?
«Ovviamente, cercheremo di interessare nuovamente la politica, affinché, senza strumentalizzazioni, si migliori ciò che, a livello normativo, non ha, evidentemente, funzionato, sotto diversi profili, magari cambiando gli interlocutori avuti fino ad ora. E, magari, scriveremo un libro, per raccontare, documenti alla mano, di quegli aspetti rimasti nell’ombra o raccontati male, anche da certa stampa (per tornare a quanto si diceva poc’anzi), sia per sfatare alcuni luoghi comuni che, purtroppo, si sono formati intorno a questa storia, con grave danno anche della memoria della stessa Pamela, sia per creare una “memoria storica” che possa servire di aiuto ad altri. In fin dei conti, proprio mia nipote, pochi giorni prima di andare incontro al suo tragico destino, mi aveva chiesto di aiutarla a scrivere un libro per poter raccontare la sua storia, attraverso gli occhi di un personaggio immaginario, per trasmettere, così, un messaggio di speranza, di forza, di resistenza e di resilienza, a tutti quegli altri ragazzi che, magari, stavano pure loro in una qualche difficoltà. Abbiamo aspettato che il processo finisse, per rispetto della magistratura. Ora, i tempi per farlo, sono finalmente maturi».