110 anni fa nasceva Pietro Germi, genio non amato dai critici marxisti

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Pietro Germi con Claudia Cardinale in Un maledetto imbroglio (1959)

Non era laureato e nemmeno diplomato. Pietro Germi avrebbe compiuto oggi 110 anni ed è stato uno dei protagonisti del cinema italiano, anche se non aveva il “pezzo di carta” appeso alla parete dello studio. Genovese, frequentò con ottimi voti il tecnico navale, ma non si presentò all’esame finale. La famiglia, madre e tre amatissime sorelle – il padre era morto quando Pietro aveva tredici anni – gli consentì di andare a studiare a Roma, al Centro sperimentale di Cinematografia, dove poté lavorare con il mostro sacro del cinema italiano d’allora: Alessandro Blasetti. Al termine del conflitto, in una Roma animata dai soldi degli uffici Psy-Op angloamericani perché col Neorealismo ricostruisse in tono minore l’identità nazionale degli italiani, firma la sua prima pellicola: “Il testimone”: un film atipico per gli stili del nuovo cinema italiano, un thriller psicologico in cui la verità non è certa fino all’ultima scena e che nonostante la vicenda torbida raccontata ha ancora una morale dura ma positiva, al contrario del deprimente e catagogico leitmotiv che guida il Neorealismo a plasmare gli italiani secondo i desiderata della propaganda alleata.

“Il testimone” è girato sotto l’egida di Blasetti, che guida e consiglia Germi. E i commenti dei critici del 1946 sono positivi.

Germi inizia così a girare pellicole “all’americana”, anche se la lezione neorealista è presente nei suoi lavori. Così come resta presente il tema della coscienza che rimorde al criminale, come in “La città si difende”, del 1951. La presenza di saldi valori morali (perfino fra i “cattivi”) in un mondo di macerie sembra essere il motivo che spinge il connotato “Dizionario Mereghetti” a definire “ideologicamente ambiguo” la sua precedente opera, “In nome della legge” (1949), una sorta di western all’italiana ante litteram in cui va in scena per la prima volta la lotta di un uomo dello Stato contro la mafia in Sicilia. A molti non va giù che Germi non abbia aderito alla retorica del Neorealismo per ispirarsi invece ai modelli hollywoodiani.

E così sempre il western classico è il modello de “Il brigante di Tacca del Lupo” (1952), storia di brigantaggio con Amedeo Nazzari, pellicola il cui finale “buonista” ha scontentato tutte le posizioni ideologiche sulla questione meridionale. Così come uno dei suoi capolavori, “Il ferroviere” (1956), in cui è davanti e dietro alla cinepresa, nonostante i toni più neorealisti, fa storcere la bocca ai critici ideologizzati, che mal tollerano i toni da “Libro Cuore” (quasi fosse un insulto) della vicenda umana raccontata nella pellicola. Il tema della coscienza che bussa alla porta dei protagonisti, il valore della famiglia e della dignità del lavoro trattati senza il necessario bacio della pantofola all’ideologia marxista o al decostruzionismo dei vincitori, spinge a inserire note velenose nelle critiche a questo film, nonostante sia considerato unanimemente un capolavoro. Del resto, la dignità dell’uomo di coscienza e del lavoratore del popolo era un dettaglio che era saltato all’occhio immediatamente anche a Ermanno Olmi, nel suo primo incontro col regista:

«Settembre 1961, a Roma. Da Rosati a via Veneto. Germi lo trovavi sempre lì, al bancone del bar, seduto davanti a un bicchiere di vino. Non era una posa d’artista: era davvero nella sua natura starsene silenzioso a pensare sorseggiando del buon vino. Se non avessi saputo ch’era un celebre regista e anche attore avrei detto, per istintiva sensazione, che poteva essere un ferroviere. Perché mi ricordava mio padre come lo avevo in mente da bambino: anche lui ferroviere. Gente solida, buoni bevitori ma rigorosamente sobri in servizio. […] Io gli confidai la grande emozione (e le lacrime!) per il suo Ferroviere. Ma al di là della grazia sublime dell’opera ‒ di una rara potenza poetica! ‒ c’era per me una ragione particolare, che mi faceva amare in modo speciale quel suo film: riguardava la mia stessa vita e quella di mio padre che aveva attraversato le stesse vicende del suo ferroviere».

Questo suo “socialismo alla Turati”, considerato dai marxisti “populista” e “paternalista” (non potevano dire “fascista” perché Germi fu sempre dichiaratamente “anti-”) non gli verrà perdonato che molti anni dopo la morte dalla critica vicina al PCI. Ed è interessante notare che le stesse pellicole stroncate o ignorate dalla critica italiana, venivano invece sonoramente applaudite durante le rassegne del cinema italiano in URSS. Per questi motivi venne stroncato dalla critica comunista “L’uomo di paglia”, in cui una storia “borghese” di infedeltà e passioni extraconiugali viene tradotta nel mondo del proletariato, scandalizzando i critici che avrebbero voluto queste vicende estranee alla tensione che la classe operaia avrebbe dovuto mantenere, nel nome dello sforzo rivoluzionario.

Nel 1959 Germi fa il suo incontro-scontro con Carlo Emilio Gadda. Traspone in pellicola – “Un maledetto imbroglio – il celebre “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, affrontato dal regista senza nemmeno aver letto tutto il libro. Ne esce un film riuscito quanto lontano dal romanzo originale. I due grandi della cultura italiana non si trovavano bene l’un con l’altro, pur non arrivando mai allo scontro diretto per via dei loro caratteri miti. Germi evita Gadda sul set perché Gadda critica, sempre garbatamente, ogni cambiamento all’impianto originale dell’opera. Alla fine esce comunque un lavoro riuscitissimo ed apprezzato.

Ma è col 1961 che Germi piazza il suo colpo migliore: quello che lo farà passare alla storia come l’inventore della “commedia all’italiana”, genere che prenderà il nome proprio dalla pellicola di quell’anno: “Divorzio all’italiana”. Germi si cimenta per la prima volta dopo tante pellicole drammatiche col genere della commedia, ottenendo un capolavoro. La vicenda del barone Cefalù, detto Fefè (Marcello Mastroianni) sposato ma innamorato della bellissima cugina sedicenne Angela (Stefania Sandrelli) che decide di “divorziare” dalla moglie con l’unico metodo possibile in quegli anni: il delitto d’onore. Germi abbandona il leitmotiv della coscienza che guida le scelte dei suoi personaggi, per approdare a un cinismo che sarà la chiave di gran parte delle narrazioni italiane di quei decenni. La storia diventa così una critica sociale dell’assenza in Italia di una legge sul divorzio e dell’istituto del delitto d’onore e avrà un ruolo fondamentale nel mettere in moto le dinamiche sociali che condurranno allo sconvolgimento del diritto di famiglia negli anni Settanta.

Dinamiche alle quali Germi tornerà ad affacciarsi con convinzione con l’ultima pellicola che porta a compimento, “Alfredo Alfredo” (1972), in cui recita Dustin Hoffman, e che è un tentativo – non ben riuscito – di confezionare un film filo-divorzista, a cavallo dell’avvento della nuova legge sullo scioglimento del matrimonio civile (1970). “Alfredo Alfredo” risulta zoppicante perché alla critica sociale filo-divorzista affianca uno sguardo realistico (accusato dunque di “misoginia”, ça va sans dire) sulle tendenze tiranniche del matriarcato presente nella società italiana.

Il canto del cigno per Pietro Germi è anche il suo capolavoro: “Amici miei” (1974-‘75). Film che rappresenta uno dei vertici della commedia all’italiana e che ha contribuito a costruire usi, costumi e lessico degli italiani nei decenni seguenti. Germi però non farà in tempo a vederlo concluso: si spegne infatti a soli sessant’anni, il 5 dicembre 1974, lasciando la prosecuzione della pellicola a Mario Monicelli. Nei titoli di testa il film è così attribuito al grande genovese che lo aveva ideato, mentre Monicelli si definisce, con grande signorilità, solo “regista”.

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