Finalmente separate. Con la riforma voluta dal ministro Carlo Nordio si corona un percorso durato oltre trent’anni e che finalmente vede la separazione fra magistratura inquirente e giudicante. Da anni anche CulturaIdentità ha fatto sentire la sua voce a supporto di svolta come questa, dedicando diverse copertine al tema della giustizia (febbraio 2020, giugno e novembre 2021) e portando sui palcoscenici il libro di Alessandro Sallusti e Luca Palamara “Il Sistema”, con il nostro direttore Edoardo Sylos Labini e la drammaturgia di Angelo Crespi, sulle rivelazioni quanto irrimediabilmente sclerotizzato fosse il sistema giudiziario italiano.
Del resto erano esattamente 80 anni che si aspettava la riforma della giustizia, da quel 1944, quando un’Italia a pezzi faceva i conti con l’eredità lasciata dal Fascismo. Che fare delle riforme di Alfredo e Arturo Rocco, l’impianto giuridico lasciato dal regime? Alla fine si scelse di lasciarlo, fatto l’opportuno mutatis mutandis. È uno dei paradossi della storia che proprio questo governo accusato di “fascismo” dalle opposizioni sia quello che manda definitivamente in pensione una gran parte del sistema ereditato dal regime di Mussolini.
Un “omaggio a Giovanni Falcone che era favorevole alla separazione delle carriere e un omaggio a Giuliano Vassalli che aveva voluto il codice accusatorio al quale ci siamo ispirati”, ha infatti rivendicato Carlo Nordio, ministro della Giustizia. È proprio il riferimento a Giuliano Vassalli (1915-2009) che dà la spina dorsale di questa riforma. Vassalli, allievo di Arturo Rocco, per tutto il dopoguerra sostenitore della separazione delle carriere della magistratura inquirente da quella giudicante, tentò una riforma del sistema giuridico in Italia nel crepuscolo della Prima Repubblica. Fra 1987 e 1989, come ministro socialista di Grazia e Giustizia, Vassalli cercò di spostare l’asse del diritto penale italiano dal sistema inquisitorio ereditato dai fratelli Rocco a un sistema accusatorio, in cui il magistrato inquirente e quello giudicante sono rigidamente separati. La riforma passò, ma negli anni successivi – gli anni di “Tangentopoli” e dei giudici-star televisive e perfino fondatori di partiti – essa venne rapidamente svuotata. Soprattutto la separazione delle carriere e la responsabilità penale dei giudici non sono mai state attuate.
Quando nel dopoguerra si era scelto di conservare la riforma fascista della giustizia uno dei principali argomenti dei giuristi del tempo fu che essa era squisitamente tecnica e non ideologica. Infatti limata dagli aspetti più sostanzialmente fascisti o non compatibili con la nuova Costituzione repubblicana, l’impianto dei Rocco rimase intatto per oltre quarant’anni. Fra i motivi che spinsero alla conservazione, anche la considerazione che un sistema tecnico, e quindi apolitico, sarebbe stato una garanzia, specialmente osservando come nei paesi dell’Est europeo l’avanzata delle dittature comuniste avveniva proprio attraverso la distorsione del sistema giuridico. Per l’ennesimo paradosso della storia, proprio il modello Rocco, che avrebbe dovuto essere tecnico e apolitico venne invece lentamente hackerato dall’interno. Il sistema apolitico era diventato un vero e proprio partito extraparlamentare che aveva portato alla distruzione di un’intera classe politica, quella della Prima Repubblica (tranne il PCI, giova ricordarlo) e al tentativo di influenzare se non annullare la sovranità popolare espressa alle urne durante il trentennio berlusconiano. Ed è per questo che la principale garanzia di apoliticità della giustizia diventa la separazione delle carriere.
La riforma della giustizia approvata in CdM ora apre un capitolo nuovo nella storia del diritto in Italia. Sperabilmente cesserà l’accordo fra magistratura inquirente e giudicante, divenuta disfunzionale da quando i magistrati hanno smesso di fare il loro mestiere per occuparsi di “teoremi” politici da dimostrare a tutti i costi. Finiranno anche le correnti, con l’introduzione del principio del sorteggio per gran parte dei membri del CSM. Infine anche la responsabilità dei giudici verrà valutata da un organo esterno, secondo un’ottica di pesi e contrappesi. Dell’impianto Rocco invece resta l’obbligatorietà dell’azione penale: un dettaglio non dappoco, in un mondo in cui la magistratura da anni cerca di forzare la mano alla politica per indirizzare ideologicamente la società. Lasciare al giudice la discrezionalità di decidere se agire penalmente davanti a un reato consegnerebbe lui l’opportunità di “graziare” letteralmente intere categorie di comportamenti penali che nella sua testa potrebbero essere ideologicamente scusabili: dai reati connessi all’immigrazione clandestina a quelli di droga, dalle intemerate degli “attivisti” (dall’eco-terrorismo al vandalismo della cancel culture contro i monumenti) fino agli stupefacenti.
Ora, dopo il passaggio in CdM la prossima mossa sarà della casta togata, che già annuncia un’alzata di scudi in attesa dei passaggi parlamentari che porteranno la riforma in Gazzetta Ufficiale. “Io la magistratura non la considero un mio nemico – ha dichiarato il primo ministro Giorgia Meloni – bisognerebbe chiedere alla magistratura se considera questo governo un nemico”.