È in scena fino al 2 marzo, al Teatro Manzoni di Milano, L’avaro di Molière. Due atti, durata 120 minuti. Ecco la recensione.
IL CAST
Ugo Dighero, Mariangela Torres, Fabio Barone, Stefano Dilauro, Cristian Giammarini, Paolo Li Volsi, Carolina Leporatti, Rebecca Redaelli, Luigi Saravo. Regia di Luigi Saravo, musiche di Paolo Silvestri, costumi Lorenzo Russo Rainaldi, coreografie Claudia Monti, luci Aldo Mantovani.
IL TARGET
Dai 14 anni in su
LA TRAMA
Arpagone è un ricco uomo egoista e insensibile a tutto, tranne che ai soldi che accumula senza spendere. Il suo stile di vita è piuttosto modesto, con l’attenzione a risparmiare il più possibile ed evitare gli sprechi anche nei piccoli dettagli, come la richiesta che fa al suo servo di non azionare l’aspirapolvere laddove sia già passata una volta. Non stupirà dunque se per i figli, che ha allevato da solo dopo essere diventato vedovo, ha già pianificato nozze a basso costo con persone molto più adulte e benestanti. I ragazzi, Cleante ed Elisa, sono in realtà già innamorati di coetanei, senza poter parlare delle loro relazioni in quanto terrorizzati dalla possibile reazione del padre. Elisa si deve nascondere con il suo amato Valerio, servo di Arpagone a cui accondiscende ogni idea per guadagnarne la stima (e ci riuscirà, quando il padrone arriverà a consegnargli, ignaro dei sentimenti in atto, la patria potestà sulla figlia Elisa). Scherzo del destino, Cleante vive una storia d’amore segreta con Marianna, la giovane che vorrebbe sposare Arpagone. Cresce quindi una rabbia intrinseca in famiglia, con i figli insofferenti verso un padre che non concede loro libertà e denaro per crearsi un futuro con le persone amate. Intrecci di relazioni si prestano a un equivoco dietro l’altro, con due personaggi chiave a tirare i fili della storia: Saetta, servo di Cleante e visto con sospetto da Arpagone che teme gli voglia sottrarre i suoi denari, e Frosina, una donna arguta e capace di manipolare le situazioni, compreso il matrimonio tra l’avaro signore e Marianna, che invece non vorrebbe…

LA MORALE
Che i soldi non producano felicità ce lo ripetiamo da sempre, ma è davvero così? Siamo davvero convinti quando asseriamo questa tautologica certezza? L’avaro di Molière ci dimostra che probabilmente diamo tutti troppa importanza al denaro, considerandolo il motore della nostra vita. Puntiamo il dito contro l’egoismo altrui solo perché questo non ci consente di fare ciò che vorremmo usando il medesimo atteggiamento: diventiamo quindi moralizzatori in quanto invidiosi di ciò che non possiamo realizzare, ma non perché davvero ci crediamo. Eppure, in questa fotografia sociale che non salverebbe nessuno, c’è uno spiraglio di luce: i sentimenti, ma soprattutto le relazioni sincere e il dialogo aperto, consentono di sfiorare quella moralità, perché ci permette di guardarci in faccia con trasparenza, senza dover mantenere una doppia vita che imponga troppe menzogne. Forse non saremo perfetti, ma perlomeno avremo la certezza di mantenere la nostra identità, evitando di peggiorare il nostro fragile status etico.
IL COMMENTO
Commedie come quelle di Molière sono grandi classici per un motivo ben preciso: saranno sempre attuali, affrontando tematiche e sfaccettature dell’umanità che mai cambieranno. La chiave, per mantenerle in vita, è di portarle in scena continuamente con un linguaggio contemporaneo. È proprio quello che fa Luigi Saravo, che non cambia una virgola alla trama originale ma ne cattura il significato profondamente moderno: il confronto tra generazioni diverse che dovrebbero dialogare tra loro per migliorare il mondo. Viviamo un’epoca in cui i selfie diventano l’ostentazione di una ricchezza incontrollata, pronta a essere sperperata in ogni momento. Le nuove generazioni non hanno il senso del risparmio, al contrario di quelle più adulte che, però, accumulano soldi finendo col dimenticarsi del motivo per cui lo facciano, senza riuscire a goderli appieno. Tante le contraddizioni sociali che emergono da questa rappresentazione, dove permane tra le altre cose una domanda: perché Cleante deve attendere i regali del padre e ricorrere a uno strozzino (che poi si rivelerà essere lo stesso Arpagone) anziché cercarsi un lavoro per guadagnarsi da vivere? L’avaro è dunque una commedia assolutamente da vedere, perché si ride su vizi ed esasperazioni della nostra umanità che purtroppo non cambiano ma, visti dall’esterno, diventano molto comici. I cinque atti originali si riducono a due, con ritmi veloci e simbolismi da cogliere anche nei dettagli.
IL TOP
Ugo Dighero è l’astuto ed egoista Arpagone, a cui dona la giusta dose di comicità con estrema naturalezza, riuscendo altresì a dare al suo personaggio anche una veste più drammatica. Nel gioco di versatilità del teatro di Molière, Dighero si muove con grande esperienza sul palcoscenico: guida il gruppo di giovani attori, dà autorevolezza alla morale della commedia risultando credibile e probabilmente facendo un ulteriore salto di qualità, perché confrontarsi con un personaggio interpretato da grandissimi come Villaggio o Sordi è cosa tutt’altro che facile. Ci riesce, facendo un Arpagone alla sua maniera, che non cerca imitazioni nei precedenti colleghi ma che non c’entra nemmeno nulla con lo zio Giulio di Un medico in famiglia o con il pupazzo Gnappo di memorabili ricordi televisivi. Forse il miglior Dighero di sempre.
LA SORPRESA
Diventa tutto più facile con un cast di attori giovani entusiasti ed energici, ma il merito va anche nell’averli saputi scegliere, creando un meraviglioso Avaro. A sorprendere, c’è un altro inserto di regia: i cori gregoriani di bambini che ricordano tassi di inflazione ed espressioni economiche, riecheggianti nella testa di Arpagone. Anche così Molière continua a vivere senza risultare sorpassato nemmeno per un istante dello spettacolo.