L’opera d’arte non è una semplice cosa. Non lo è perché esprime quella haecceitas, quel tratto proprio degli esseri viventi che respirano, che la collocano oltre l’essere “cosa”: come direbbe Heidegger, essa rivela e allo stesso tempo nasconde con la sua forza evocativa, la ricchezza inesauribile dei significati che si intrecciano nel mondo umano. Ed è proprio questa ecceità a rendere fragile e preziosa l’opera d’arte, che è espressione e proiezione di vita, è temporale, finita, ma trascende il tempo. Insomma, prendersi cura, proteggere e consegnare al futuro i capolavori che il genio umano regala alla storia è questione cruciale, delicata, da addetti ai lavori. Cesare Brandi è uno di loro.
Nato a Siena nel 1906, è stato tra i più importanti storici e teorici dell’arte a livello nazionale e internazionale, noto soprattutto per le riflessioni fondamentali e innovative nel campo del restauro e della conservazione del patrimonio artistico. Fu proprio l’esperienza ventennale (1939-’59) come direttore dell’Istituto Centrale del Restauro, voluto da Giuseppe Bottai e Giulio Carlo Argan, a permettere al Brandi di licenziare nel 1963 la sua opera più notevole e decisiva, Teoria del restauro. Il restauro rappresenta un aspetto centrale della cultura e degli studi artistici, perché il suo nobile fine è quello di prolungare la vita dell’opera d’arte e parzialmente reintegrarne la visione e il godimento. Ma, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, come il Brandi non manca mai di sottolineare, la cosa più grave che riguarda l’opera non è tanto quello che le manca, ma quello che indebitamente si inserisce o si toglie. Sulla scorta di questo primo monito, Cesare Brandi dirà sempre con grande perentorietà che qualsiasi comportamento che verrà attuato nei confronti dell’opera, ivi compreso quello di restauro, dipenderà dal riconoscimento nella coscienza individuale dell’opera d’arte in quanto tale: “l’opera d’arte, infatti, come afferma John Dewey in Arte come esperienza, viene ricreata ogni volta che viene sperimentata esteticamente”.
Dovremmo chiederci se questo riconoscimento è avvenuto nelle coscienze di quegli sciacalli che imbrattano le opere d’arte per fini “nobili”: cosa c’è più nobile dell’arte se l’artista, ogni volta che crea, replica l’azione divina, e imprime per sempre la sua anima immortale nell’opera? Tralasciando pensieri che sembrerebbero ovvi ma che con grande vergogna e rammarico non lo sono, dal riconoscimento dell’opera deriva quello che Brandi definì come il primo principio del restauro, il quale consiste nel momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro. Da queste parole si evince la difficoltà ma anche il fascino teorico e pragmatico del restauro, il contemperare le due istanze che emergono nel darsi dell’opera: l’istanza estetica, che mette in luce la natura autentica dell’opera d’arte come artisticità e l’istanza storica, il fatto che essa rimane sempre e comunque un prodotto umano attuato in un certo tempo e luogo. Qualora le condizioni dell’opera d’arte si rivelino tali da esigere un sacrificio di una parte di quella sua consistenza materiale che rappresenta il luogo di manifestazione dell’immagine, il sacrificio per il Brandi dovrà essere compiuto secondo che esige l’istanza estetica, proprio perché è questa che manifesta l’haecceitas, la singolarità dell’opera d’arte non è data né dalla sua storicità né dalla sua materia ma dalla sua artisticità.
Per comprendere la questione nella sua realtà effettiva, si consideri per un attimo il caso delle aggiunte trovate su un’opera d’arte da restaurare. Per l’istanza storica, le aggiunte, avendo valore documentale e storico, andrebbero mantenute. Un esempio reale è il caso degli affreschi di Baldassarre Peruzzi nella Sala delle Prospettive di Villa Farnesina a Roma, sopra i quali sono state individuate sulle pareti incisioni e graffiti vandalici risalenti al sacco di Roma del 1527. In questa occasione, la soluzione scelta dai restauratori è stata quella di non rimuovere tali aggiunte, anche se vandaliche, poiché non vanno a ledere la lettura dell’opera e al contempo testimoniano un evento storico decisivo.

Tuttavia, se l’aggiunta ostacola l’unità potenziale dell’opera o non rispecchia le intenzioni originarie dell’artista, essa deve essere rimossa perché il potere godere dell’opera al massimo delle sue possibilità artistiche ed estetiche è un elemento che ha la precedenza sulla conservazione delle modifiche la storia compie sull’opera. È ciò che è avvenuto con il San Sebastiano di Guido Reni conservato al Prado e di recente restaurato: nel processo di restauro sono state eliminate le ridipinture che coprivano il pube con un’aggiunta di drappo bianco, volute dalla consorte di Filippo V, Elisabetta Farnese perché considerate “impudiche”. Queste, benché testimoniassero un evento storico, intaccavano le intenzioni dell’artista che non lo voleva “censurato”.

Tutto questo sta a significare quanto le scelte da operare sul campo siano ogni volta complesse ed esigano pensiero critico: Cesare Brandi ha saputo magistralmente conferire al restauro per la prima volta il fondamento filosofico e teorico che un’attività così delicata e nobile merita. Prendendo le distanze dall’idea prevalente del restauro di ripristino come integrazione o come rifacimento, tanto invalsa negli interventi dei secoli passati, Brandi ha creato terreno fertile perché il prendersi cura dell’opera potesse diventare ricerca dell’autentico e responsabilità estetica per la salvaguardia e la conservazione del patrimonio artistico mondiale. Teoria del restauro è diventato non solo la fonte massima di ispirazione della Carta del Restauro del 1972, documento che norma nel nostro Paese tutti gli interventi sulle opere d’arte, ma lo scritto del Brandi resta tutt’oggi il manuale base nelle università e nelle scuole di restauro da Tokyo a Varsavia. Se oggi l’italiano è lingua franca nei principali laboratori di conservazione del mondo e l’Italia conserva ancora il primato in fatto di restauro e cura delle opere, il merito è di Cesare Brandi.