E crollano pure gli iscritti all’Università

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marcela_net via PIxabay

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L’Università cade a pezzi, e crollano pure del 3% le immatricolazioni, ma il governo è contento. Il ministro Messa infatti gioisce che, mentre la nave affonda, siano aumentate le iscrizioni femminili a Ingegneria. Ma non ci risulta che, negli anni precedenti alla riforma Berlinguer, quella dell’Ulivo, che ha sfasciato l’università, le donne non potessero iscriversi alle facoltà scientifiche: mica eravamo in Arabia Saudita e l’illuminismo non è certo stato introdotto dai recenti ministri dell’università (quasi tutti di sinistra da molti anni a questa parte, e il risultato è sotto gli occhi di tutti).

Le motivazioni della flessione possono essere molto diverse tra loro e incolpare l’esecutivo Draghi sarebbe ingeneroso: tuttavia il ministro dovrebbe porsi il problema, invece che cantare vittoria per un dato che nulla aggiunge al sistema universitario, cioè se a Ingegneria vi sia qualche ragazza in più. Certo, sono promessi finanziamenti, più o meno a pioggia con il Pnrrr. Ma da quel poco che si sa, sembra che i fondi saranno dispensati in modo da soffocare i piccoli atenei del centro e del sud, una vecchia battaglia dei Competenti e dei Bocconians, e uno di questi è consigliere capo dello stesso Draghi.

La mentalità para marxista per cui ad ogni problema vi sarebbe una soluzione, e questa starebbe nell’elargire denaro pubblico (tale è il Pnrr, non sono i soldi di Draghi e di Messa) è destinata, nel caso dell’Università, però persino ad allargare il malessere. Gli Atenei sono in grave crisi di identità, abbandonati dalle fasce alte in termini di reddito, che spediscono i loro figli all’estero, mai veramente frequentati dalle fasce basse, essi non sembrano neppure più davvero appetibili a quella classe media che era il vero destinatario della Università post riforma Berlinguer.

C’è poi una crisi di identità culturale. La grande università italiana, gentiliana, distrutta dalla riforma dell’Ulivo, era un sistema estremamente selettivo, gerarchico, meritocratico, fondato su uno schema di valori ben preciso e portatore di una missione nazionale. Certo, nel corso dei decenni aveva accumulato difficoltà, ma raderla al suolo è stato un autentico crimine, alimentato ideologicamente dal pensiero progressista, per cui bisogna imitare gli altri modelli nazionali e soprattutto cambiare brutalmente la missione dell’Università: non formare a un metodo ma preparare al “mondo del lavoro”. Come se fosse una scuola di avviamento professionale.

Ovviamente, come tutti i progetti neogiacobini calati dall’alto, non poteva che fallire: anni dopo la riforma Berlinguer, non sono in proporzione aumentati i laureati, i quali attendono molto più tempo prima di trovare un lavoro dopo la laurea, forse perché sono decisamente meno preparati dei loro fratelli maggiori, perché nel frattempo il carico di studi è stato notevolmente alleggerito.

Ma, dicevano Prodi, d’Alema, Veltroni, ce lo chiede l’Europa, quando non risulta che sfasciare il sistema di istruzione superiore fosse presente nel Trattato di Maastricht. Come lo chiede l’Europa, oggi, di tenere aperte le scuole e di evitare la Dad. Cosa giustissima in sé, se non si rivelasse però una presa in giro: le scuole sono aperte, ma moltissimi professori sono assenti perché positivi e, come accaduto a mio figlio ieri, terza media, egli ha passato la maggior parte del tempo in aula a non fare nulla. E il ministro dell’Istruzione è anche qui, un ex rettore, come Messa.

Entrambi, lasciatecelo dire, fanno rimpiangere i loro predecessori nel governo Conte: quello dell’università, pure ex rettore, era però dotato di sensibilità politica, tanto che oggi è sindaco di Napoli, mentre l’Azzolina, almeno, era involontariamente simpatica.

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