Ciao Gigi…”A me gli occhi, please”

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Il 2 novembre è venuto a mancare Gigi Proietti: quel giorno avrebbe compiuto 80 anni. 

Per l’occasione vi proponiamo l’intervista che il grande attore concesse a il Giornale OFF nel 2017 (Redazione)

Lei stupisce tutti col meraviglioso racconto della sua inimitabile vita…

Ha detto inimitabile? Ma la vita inimitabile è una prerogativa di D’Annunzio non mia che ho cominciato strimpellando una chitarra che mi era stata regalata a Natale mentre a mia sorella era toccata in sorte una fisarmonica”

Per davvero?

“Mi ascolti e tutto le sembrerà facile. Io con la chitarra cominciai ad esibirmi, per ridere, davanti a un gruppo di coetanei, appena iscritti come me alla facoltà di Legge. Ma dopo un po’ mi stancai di avere un uditorio così limitato e un po’ per scherzo un po’ per piacere personale cominciai a raccontare delle barzellette inframmezzate da piccoli intermezzi comici. Poi mi misi a canticchiare brani di celebri canzoni del passato nelle trattorie dove andavamo dopo aver faticato sui libri a gustarci una pausa ristoratrice”.

Ma allora il palcoscenico per lei è stato una seconda scelta?  

“No, è stata una meravigliosa avventura che mi è capitata addosso quasi senza volere perché una sera in una di quelle meravigliose trattorie romanesche, che oggi pur – troppo cominciano a scomparire, si presentò un grande attore e mimo come Giancarlo Cobelli. Che mi disse: “Ma lei caro, deve fare assolutamente del teatro”. Io gli risposi, che per fare teatro ci volevano gli attori. Io non sono un attore sono solo un povero pazzo che dice tre o quattro barzellette tra una lezione e l’altra all’università. Siamo un gruppo di amici che ambiscono soltanto a divertirsi. Al che Cobelli mi rispose piccato, mi dispiace molto perché lei dimostra un talento che s’ incontra di rado anche tra i giovani che frequentano l’Accademia d’arte Drammatica. Dopodiché facendomi un cenno di saluto se ne andò. Non lo rividi per qualche tempo”

E allora come andò a finire?

“Andò a finire che tra i miei incontri fortuiti ci fu quello con Vittorio Gassman. Che proprio all’università venne a raccontarci qualcosa della sua vita di palcoscenico.  Io andai ad ascoltarlo incuriosito dal fatto che un uomo così importante dalla vita bizzarra e tumultuosa, venisse a parlarne con noi”.

Cosa vi disse Gassman?

“Cosa ci disse non me lo ricordo. Ricordo soltanto che mi stupì per la sua umiltà quando gli chiesi come mai avesse trionfato così giovane allestendo testi che andavano da “Otello” a  “Amleto”. Mi rispose che, ad aiutarlo, era stata la sua innata timidezza che non lo lasciava mai neppure quando uscì dall’Accademia. Ma dovevo pur cominciare a farmi valere. Così capii che la paura che mi aveva da sempre attanagliato era una falsa pista. Poi cominciò a dialogare con noi come se fosse appena tornato da un allenamento. Allora non sapevo che era stato anche un grande campione non mi ricordo più se di pugilato o di atletica leggera. Glielo chiesi e lui mi rispose: “Bisogna pur gonfiare i muscoli se si vuole recitare”. Così mentre gli ricordavo il mio piccolo curriculum di cantante attore lui mi rispose: “Perché non viene a trovarmi uno di questi giorni così vedrà come recitano i miei attori. E poi andiamo a berci una bella birra”. Fu cosi continuai a frequentarlo molto amichevolmente. A quel punto decisi che il teatro sarebbe stato la mia vita. All’inizio sia io che Gassman pensavamo  che il mio lavoro teatrale dovesse incanalarsi in una carriera d’attore drammatico”

Quali sono stati i suoi primi ruoli da protagonista?

“Tra i miei primi ruoli ci fu un testo di Alberto Moravia intitolato “Il dio Kurt” che re-citai dapprima allo stabile dell’Aquila e subito dopo al Piccolo di Milano con Alida Valli e la regia di  Antonio Calenda. Un testo di una drammaticità spaventosa in cui impersonavo un nazista che alla fine si  redimeva. Ebbe un grande successo soprattutto tra gli addetti ai lavori. Avremmo potuto replicarlo anche per due stagioni se non fossimo stati incalzati dalle continue richieste di fare qualcosa di più commerciale. Intanto con l’avvento del sessantotto gli editori cominciavano a interessarsi  alla drammaturgia. Dalle fumose librerie del centro Europa arrivavano i testi dei grandi autori polacchi che non avevamo mai sentito nominare come Witkiewicz. Io finii per innamorarmene al punto di persuadere i teatri, con cui avevo stabilito  una fraterna collaborazione,  di farmene interpretare qualcuno. Fu così che scoppiò il caso di “Operetta” di Gombrowicz un testo meraviglioso. Per la mia versatilità venni paragonato a Petrolini. Un attore che non ho mai potuto conoscere ma di cui ho visto alcuni spezzoni cinematografici interessanti. Sembrava un gigante e al tempo stesso un bambino capriccioso che arrampicatosi per caso all’ultimo piano di una gigantesca libreria si divertisse a saccheggiare un testo dopo l’altro. Fu a questo punto che mi ritrovai a soccombere a quel grande tentatore di Cobelli. Probabilmente, oggi avrei esitato prima di dare il mio sì incondizionato a quella stranissima prova che stava per incombere su di me. Ovvero quello strano Music Hall che  s’ intitolava “La caserma delle fate”.  Che ebbe successo ma che per noi attori fu molto travagliato perché di un vero e proprio copione non si poteva parlare. Infatti da regista attore Cobelli aveva confezionato da sé il copione. Ma ogni giorno, a seconda di quelle che chiamava “ intermittenze del cuore”, come quelle di Proust che stava leggendo in quel periodo, si divertiva ad aggiungere tre o quattro rime, dieci versi di una canzone inedita, cancellando battute su battute per sostituirle con altre. Tutto quanto poi era complicato dal fatto che anche Cobelli recitava con noi e come un invasato continuava ad andare su e giù dal palcoscenico cercando dei guizzi estemporanei per farli subito dopo ripetere a noi che non avevamo la sua esperienza.

Erano gli anni in cui nei suoi spettacoli cantava, insieme a Laura Betti, canzoni scritte da Missiroli, da Arbasino e da Piovene che noi avremmo dovuto far da coro. Fu comunque una grossa esperienza che mi insegnò che cosa fosse la disciplina di palcoscenico sforzandomi di non di non spezzare quell’incanto che mi legava al pubblico e al personaggio che in quel momento dovevo recitare. Fu la prima volta che qualcuno per la strada mi chiedeva l’autografo e si congratulava con me. Un’esperienza per me molto imbarazzante che avrei voluto andarmene subito a casa a pensare come avrei potuto migliorare le mie interpretazioni. Sono sempre stato una specie di maliardo della scena in cui ho sempre fatto tutto e il contrario di tutto finchè non mi sono reso conto che dovevo avere una linea precisa migliorandola sera dopo sera come accadde ai tempi del Teatro Tenda di piazzale Clodio”

E’ stata l’esperienza più interessante della sua vita: ce ne parli, la prego.

“Determinante fu l’incontro con il drammaturgo Roberto Lerici un grande amico che purtroppo non c’è più e che ancor oggi mi manca tantissimo. Lerici mi diede l’opportunità di misurarmi con me stesso continuando ad esplicare la mia vena comica. Naturalmente c’erano di mezzo i suoi testi e la sua genialità di farmi interpretare brani della Commedia dell’Arte o del teatro francese e inglese dell’Ottocento. Tutti mescolati in un calderone che oggi farebbe paura persino a me riprendere con quello spirito giovanile che si perde nel corso degli anni e che alla fine si trasforma in mestiere. In quel teatro tenda per me confluiva tutto il mondo possibile e immaginabile. Ho ancora il ricordo della gente che si assiepava e che si sedeva come se andasse alla Scala o al Piccolo Teatro e che condivideva con me il ruggito dei leoni. Perché il proprietario del tendone era un vecchio ex domatore a cui erano rimasti soltanto quattro leoni spelacchiati che circolavano liberamente dentro un’enorme gabbia e che ogni tanto mandavano i loro ruggiti”

Veniamo adesso al teatro Sistina?

“Ad un certo punto venni chiamato da Garinei e Giovannini che di me avevano una grande stima. Avrei dovuto sostituire Modugno nel musical “Alleluia brava gente” insieme a Mariangela Melato. Fu una bellissima esperienza ma anche quella transitoria. Perché non volevo prendere il posto dei grandi mattatori della scena del varietà. Il mio varietà era un’altra cosa”

E il cinema?

“Ricordo con grande piacere la “Tosca” che feci con Luigi Magni in compagnia di Monica Vitti che era la cantante e di Vittorio Gassman che con l’occhialino seduto in poltrona come se fosse l’imperatore di Roma era il barone Scarpia. Pensi che Monica Vitti a chi le diceva: “Attenta signora, così rischia di cadere rispondeva: “ Io non cado, mi butto”

Ma è possibile che il nostro Gigi non abbia ancora nella sua cornucopia altre meravigliose invenzioni?

“Sono molto fiero della scuola per attori che ho tenuto per nove anni al teatro Brancaccio che poi si è trasformata a Villa Borghese nel teatro Globe il “doppio” del famoso teatro shakespiriano dove riprendo i capolavori del Bardo pieni di colpi di scena, di agnizioni e di delitti reinterpretati con spirito eversivo”.

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