La prima causa della diminuzione delle nascite in Italia pare essere la difficoltà di conciliare lavoro e organizzazione familiare. Tant’è che, secondo ricerche Istat relative al 2022, per 100 donne occupate senza figli ci sono 73 occupate con figli minori. Un gap che la dice lunga sulla civiltà del nostro Paese in materia di politiche per la famiglia.
Avere figli è penalizzante per la partecipazione al mondo del lavoro per le donne, mentre non lo è per gli uomini. Se, infatti, per le donne avere figli riduce il tempo e l’energia da dedicare al lavoro, per gli uomini invece aumenta la motivazione per la necessità di provvedere alla famiglia. Cosicché gli uomini (compresi fra i 25 e i 54 anni) senza figli hanno un tasso di occupazione del 60,1%, quelli con figli minori dell’81,2%, mentre le donne senza figli lo hanno del 46,4% e quelle con figli minori del 39,7%. Lo svantaggio interessa di più le meno istruite e specializzate, per le quali la nascita di uno o più figli significa il più delle volte uscita dal mercato del lavoro.
La differenza di genere si rivela fondamentale anche per la forma contrattuale, giacché, mentre per gli uomini l’occupazione a termine caratterizza quasi esclusivamente l’ingresso al lavoro ed è marcata solo nella fascia di reddito più bassa, per le donne lo è più diffusamente e interessa anche le lavoratrici che guadagnano di più. Il fatto che interessi le giovani madri con due figli, per le quali spesso si prospettano l’inattività o la disoccupazione, evidenzia la crucialità del legame fra lavoro e fecondità. Va da sé che divari salariali e precarietà contrattuale creano un mercato del lavoro che poco favorisce la programmazione della genitorialità.
Da una relazione dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INAPP, 2022, Rapporto PLUS 2022 – Comprendere la complessità del lavoro) sulle convalide delle dimissioni delle lavoratrici madri (fascia compresa fra i 18 e i 49 anni) relativa al 2021 si evince che il 44% permane nello stato di attività lavorativa dopo la maternità, mentre il 32% finisce in quello di inattività o disoccupazione. C’è infine un 18% che ne esce smettendo di lavorare. Tale fenomeno interessa in particolare quante sono in condizione di monogenitorialità e le più giovani (il 42,7% del totale è nella fascia d’età 18-24). Anche in questo caso le più penalizzate sono le ragazze con basso livello d’istruzione.
Le motivazioni fornite dalle intervistate nell’indagine INAPP circa le cause delle dimissioni investono le difficoltà di conciliazione tra lavoro e funzione di cura dei figli per il 65,5% del totale, divise, a loro volta, tra quelle connesse alla mancanza di servizi (44%) e quelle legate a specifiche problematiche dell’azienda (22%).
Si può, quindi, concludere che il lavoro rende infeconde le donne nella misura in cui sono costrette a sottoscrivere una sorta di patto con il diavolo: devono vendere la loro anima femminile per averlo. Si può anche affermare che la parità di genere si raggiunge solo in deroga alla maternità, giacché essere donne va pure bene per il mercato del lavoro, così come va bene essere di qualsiasi “orientamento” sessuale, ma essere madre decisamente no. È qui che s’instaura, al netto di ogni retorica, la vera discriminazione, discriminazione che si accompagna alla solitudine in cui vengono lasciate le madri con la loro scelta pro vita.