Il Ponte sullo Stretto: sì, no, forse…

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Un tunnel sottomarino anziché il Ponte sullo Stretto? Così il premier Giuseppe Conte prende la palla e la butta in tribuna. Un modo come un altro per decidere di non decidere sull’opera per eccellenza che dovrebbe liberare non poche energie al Sud. Non c’è niente di peggio di quando il niet ideologico di una forza come i Cinque Stelle si accompagna alle supercazzole (per dirla con il conte Mascetti) di un leguleio. Un registro, del resto, che il Presidente del Consiglio ha dato prova di saper utilizzare parecchio bene in quest’ultimo anno.

Probabilmente il Ponte tra Messina e Reggio Calabria non si farà mai. Non perché non serva, ma perché non c’è voglia di farlo. Non c’è intenzione di superare il gap tra il nord e il sud del Paese. Manca la prospettiva di rendere l’Italia una nazione davvero unita e competitiva sullo scacchiere Euro-Mediterraneo.

Nessuno ha mai pensato che sarebbe stato il governo giallorosso a sbloccare il dossier. Proprio per nulla. La somma di due debolezze (Pd + M5s) difficilmente potrà generare quella forza propulsiva utile a infondere fiducia tra gli investitori. Ma così no. L’idea del tunnel è frustrante. Perché riconosce l’istanza di unire la Sicilia al resto dello Stivale, ma ne diluisce i tempi fino ad azzerarli. Un sofisma fin troppo imbarazzante. Tutto questo mentre la cantierizzazione del Ponte è davvero a un passo. Invece Conte, in uno stranissimo gioco dell’oca che mortifica tutti, vorrebbe ripartire dalla casella del via.

E no, così non si fa. Non quando la questione del lockdown generalizzato che si è abbattuta sul Sud al di là del parere del Comitato tecnico scientifico non è stata ancora chiarita. La già fragile economia del Sud è stata paralizzata inutilmente. Gli effetti di una scelta discutibile sono già nelle saracinesche dei negozi che non hanno riaperto da marzo e sui fatturati in rosso di troppe aziende. Il governo giallorosso sta dando prova di non saper parlare né al Sud del Paese né tantomeno al Nord. Le voci dissonanti del sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, e di Maurizio Martina confermano quello che si è sempre saputo: l’allergia dem verso tutti coloro che creano lavoro, sviluppo e ricchezza. Un rancore che corre con il debito pubblico e misure assistenziali inutili.

Se e quando arriveranno i soldi del Recovery fund, al timone del governo serviranno forze non solo legittimate dal voto popolare, ma anche con una chiara idea di futuro. Gente che sappia dove mettere le mani e che non si perda in ragionamenti melliflui da azzeccagarbugli. L’Italia è un gigante dai piedi d’argilla. Argilla che andrebbe sostituita dall’acciaio di quelle infrastrutture che servono assieme a tanti altri ingredienti. Li sappiamo: innovazione, ricerca, sburocratizzazione, coraggio, liquidità, tassazione sostenibile e una giustizia veloce e certa. Ci si perde invece tra banchi a rotelle e monopattini. Strumenti utili, sì. Ma per andare a sbattere contro a un muro.

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