Gli iconoclasti attaccano a 360 gradi. E da Waterhouse a Francesco Baracca, nessuno è al sicuro
L’ultima incarnazione del politicamente corretto più delirante già da alcuni anni ha iniziato a far sparire le opere dai musei. Fortunatamente ancora in maniera temporanea e ancora sollevando polemiche. Ma il trend è avviato, ed è preoccupante. Sì la cancellazione della cultura non si scaglia solo contro le statuacce su pubblica piazza come Roberto Saviano definì su Facebook quella del filantropo (e commerciante di schiavi) inglese Edward Colston distrutta dalla folla a Bristol nel giugno 2020, ma inizia a insidiare le opere anche là dove dovrebbero essere preservate. Nel 2018 ai tempi dell’ondata del #MeToo la curatrice Clare Gannaway decise di far sparire in magazzino il quadro di «Ila e le ninfe» del preraffaelita John W. Waterhouse per la presenza di ragazze a seno scoperto. La colpa del preraffaelita era «oggettivizzare le donne». Poco importa alla canea dei detrattori di Waterhouse che proprio i preraffaeliti furono una delle prime correnti artistiche ad avere una presenza femminile di primo piano.
Similmente a Vienna nel 2023 per la «Giornata internazionale dei diritti della donna» un ritratto di Sissi, l’imperatrice austroungarica, fu nascosto sotto un manifesto con una poesia femminista. Due casi in cui sono stati i musei stessi a “oscurare” le proprie opere per «sensibilizzare il pubblico» sul tema del momento.
Altro filone quello degli eco-vandali autori nel 2022 del lancio di zuppa di pomodoro contro il vetro de «I girasoli» di Van Gogh esposto alla National Gallery e di aver incollato (sempre al vetro) di un Constable una stampa con una visione apocalittica. O gli antifà bresciani che hanno posato un sacco della spazzatura su un bronzo di Adolfo Wildt raffigurante Mussolini.
Sebbene nessuna opera sia stata rimossa in maniera definitiva o danneggiata durante le dimostrazioni è evidente che il ruolo dell’esposizione museale inizi a essere a rischio. Il museo non è più un sancta sanctorum dove l’arte è preservata per le generazioni future, in un ideale e continuo passaggio di testimone tra le epoche. Lo dimostra un terzo filone della cancellazione ancora latente, quello delle installazioni contemporanea che rendono eufemisticamente complicata la fruizione di opere o reperti nei musei. Come l’installazione video che impedisce di fruire dei due affreschi di Guido Cadorin la «Custode della Patria» e la «Custode della Storia» nel piacentiniano monumento alla Vittoria di Bolzano, visibili al visitatore solo per una manciata di secondi prima che si spengano le luci e parta il video. O il rumore assordante da fabbrica metallurgica nella sala che espone gli incolpevoli fossili e piccoli dinosauri all’ex Pigorini dell’EUR. E se per gli affreschi di Cadorin si può almeno sventolare lo spauracchio del fascismo, che colpe hanno ammoniti e mammuth del Pigorini?
Ecco quando si arriva alle opere nei musei si comprende che non si tratta più del dibattito tra arte, spazio pubblico e politica come può avvenire intorno a monumenti su pubblica piazza. Quando si arriva a oscurare le opere in un museo la «cultura della cancellazione» si tramuta nella «cancellazione della cultura» in senso iconoclasta. Il fenomeno della cancel culture non è più solo relegato alle orde di isterici ultra-suscettibili che assaltano sui social le carriere di giornalisti, politici o esponenti del jet set, ma l’intera gamma di attacchi wokeisti al passato storico, al retaggio artistico, letterario, civile, tradizionale e religioso delle nazioni in occidente.
Nulla è al sicuro. Basta aver professato un comportamento oggi politicamente scorretto per essere cancellati. Negli Stati Uniti, finiti i confederati, finiti i padri della patria che possedevano schiavi, si è arrivati a toccare persino Lincoln colpevole di aver firmato l’ordine di condanna a morte per trenta nativi durante le guerre indiane (salvo firmare nello stesso frangente la grazia per quasi altri cento su suo ordine). E in Italia? Oltre al fascismo i cancellatori nostrani hanno iniziato a muoversi contro il passato coloniale. Secchiate di vernice arrivano sulle statue a Milano di Indro Montanelli, accusato di essere un «predatore sessuale» e un «colonialista», e Gabriele d’Annunzio a Trieste, ovviamente «nazionalista» e «maschilista» secondo gli attivisti de’ noantri. Ma c’è anche chi guarda più lontano. A dicembre lo scrittore e personaggio social Christian Raimo, spesso ospite di Piazza Pulita, ha rilanciato il post di un tale che vorrebbe cambiare il nome al liceo classico Giulio Cesare. Secondo il tale Giulio Cesare in Gallia fu colpevole di genocidio, ergo va cancellato. E se per adesso questa rimane una sparata internettiana vale la pena ricordare nel giugno 2022 a Roma la scuola media Francesco Baracca è diventata la scuola Rosa Parks, perché il nome di Baracca sarebbe stato «poco inclusivo».
Insomma la cancellazione della cultura e, quindi, della nostra bella Italia è già qui.