La fortuna del giullare tra normalità e pazzia e troppa genialità

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Heinrich Vogtherr il Giovane (1513-1568)

Il buffone, il giullare, il menestrello, il joker…diverse accezioni di un significato comune.

Lo stereotipo collettivo di queste figure è frutto di anni e anni di storia, affonda le sue radici nell’istrione e nel mimo del Tardo Impero Romano o forse nella tradizione attorica delle culture barbare, raggiungendo la sua apoteosi certamente nel Medioevo.

Il giullare è l’indiscusso protagonista delle feste, dei banchetti, della piazza in cui il popolo si riconosce e condivide tempo di svago e di conoscenza. E’ colui che allieta i signori di corte, le abbiette taverne della città, ma anche gli ecclesiastici.

Varie sfumature e distinzioni sono state fatte di questa figura, che socialmente non ha mai avuto una dignitosa collocazione, ma esiste su un piano altro, pur essendo emblema di continuità per tantissimi secoli.

Recepito come folle, fuori dagli schemi, moralmente degradato, il giullare è stato però un’indiscussa compagnia per tutte le sfere sociali, che per un motivo o per l’altro l’hanno recepita come figura imprescindibile della società. Allietava persino cortei funebri, signori distrutti dai dolori della vita, e quando non abusava della sua corporeità, motivo frequente d’accusa da parte della Chiesa, era anche un mezzo utile per trasmettere insegnamenti religiosi e raccontare vite dei Santi ai meno colti.

Il giullare è spesso anche un nano, uno storpio, uno zoppo, e per questo costituisce il capro espiatorio per molti re e potenti, che confrontandosi con loro si sentono automaticamente migliori e più forti agli occhi dei loro sudditi. Una specie di sadismo misto a divertimento per mascherare insicurezze personali e sociali.

Un piacevolissimo buffone di nome Ribi, protagonista anche di una pagina del Decameron di Boccaccio, ci viene raffigurato, come sovente accade, alla continua ricerca di doni e ricompense, e per questo decide di farsi rammendare le vesti con un pregiato panno scarlatto per ricoprire i buchi. Questo effetto bizzarro delle sue vesti, al cospetto di alcuni signori lombardi desta un certo stupore tanto che anche loro contribuiscono a ricoprire i suoi panni con altrettanti tessuti pregiati. Ribi è così l’anticipatore della maschera bergamasca di Arlecchino.

Nomadismo e cosmopolitismo sono altri due tratti caratterizzanti del buffone. L’universalità delle sue tecniche rende i suoi spettacoli esportabili anche al di fuori dell’ambito culturale in cui è nato. Per questo si potrebbe quasi parlare di un nomadismo istituzionalizzato come sua peculiarità.

Il giullare giramondo è infatti in continua ricerca, assorbe ed esporta molteplici culture, egli stesso è un essere multiplo perché multiple sono le sue capacità spettacolari. Non ha identità su un piano produttivo e consueto. É spiazzato, ha un nome d’arte, è instabile in quanto nomade, a meno che non inizi a fare parte di una corte. Una figura quasi romantica se si pensa al viandante che erra sempre verso qualcosa di nuovo. Anche se forse a muovere il giullare è più un bisogno di ricompensa che di ispirazione esistenziale.

Le maschere che usa sono svariate e scelte in maniera ardita. Sonagli e campanelli, creste di gallo, sai monacali…impossibile non riconoscerlo.

La dimensione della festa è la sua prescelta, dove i rituali stabiliti e gerarchizzati, specialmente quelli medioevali, della quotidianità vengono stravolti. Non a caso in molte ricorrenze, come ad esempio il Carnevale, era frequente un vero e proprio capovolgimento dell’ordine sociale, i giullari diventavano re, signori, principi, e viceversa.

Il buffone da sempre vuole infatti rompere gli schemi, fare ridere, e forse è proprio questa la sua fortuna: l’evasione che produce. L’evasione dal tempo lineare e consueto. Motivo per cui prima della Quaresima il carnevale simboleggia l’ultimo momento di svago prima di un lungo periodo di penitenza.

Un folle che gira il mondo tra miseria e ricchezza, che aiuta ad evadere il tempo e la sua pesantezza. Quello che noi oggi conosciamo come joker, il cattivo, l’emarginato sociale e di conseguenza vendicativo, che si colloca in quel sottile confine tra normalità e pazzia, che a volte altro non è che un modo per liberarsi da tanta genialità.

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