L’Europa che va contro l’Europa

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Planisfero fisico dell'Europa con confine fra Europa ed Asia - Creative Commons Attribution

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Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un lento e inesorabile logorio della politica estera delle Nazioni dell’Alleanza Atlantica e, in particolar modo, dell’Unione Europea, sempre più appiattita sulle posizioni degli Stati Uniti d’America.

Le relazioni internazionali tra i paesi atlantisti e il resto del mondo si sono rette su un rapporto di insopportabile presunzione di superiorità del modello culturale, sociale e politico occidentale, soggetto a continui e frenetici tentativi di “esportazione” verso Oriente e verso l’Africa. Una strategia che, seppur nel dichiarato tentativo di rafforzare la stabilità internazionale, ha destrutturato gli equilibri cristallizzati nel corso dei secoli in intere aree del globo.

Un chiaro esempio è stato il mondo arabo: dal Nord Africa al Medio Oriente, lo sforzo costante di “esportare la democrazia” in aree socialmente, culturalmente e politicamente incompatibili con questo modello, ha comportato l’esplosione di bolle di insofferenza incontrollate. L’intervento militare dell’occidente per ribaltare l’ordine costituito, in quanto incompatibile con il nostro modello sociale, politico e culturale, ha alimentato tensioni che sono sfociate nell’emersione di fondamentalismi pericolosamente dotati di seguito e legittimazione popolare da parte di chi, in questi, ha visto l’unica risposta all’invasione.

La continua ricerca di aree strategiche nelle zone più calde del globo in cui consolidare la propria influenza attraverso interventi militari ha costituito – a mio avviso – la strategia di un processo di “occidentalizzazione forzata”, nella presunzione e nella supponenza che il modello democratico ben potesse adattarsi, tout court e con una certa facilità, a popoli con radici profondamente diverse.

Ritornando ai primi due esempi, l’epilogo della Primavera Araba e delle operazioni in Afghanistan certificano il fallimento totale delle direttrici d’intervento dell’Alleanza Atlantica: operazioni che sono costate il sacrificio di molte vite umane, sia tra i civili che tra i militari, e che hanno creato problemi insanabili soprattutto ai Paesi dell’Unione Europea; pensiamo, per esempio, alla definitiva deflagrazione della bomba migratoria nel Mediterraneo all’indomani degli interventi NATO in Libia.

Interventi dichiaratamente di peace keeping o peace building sono finiti per creare conflitti, fame, povertà e crisi umanitarie.

Cosa dire, invece, dell’esito della lunga permanenza in Afghanistan? Si sono costruite le condizioni per la pace sulla base di un paradigma talmente estraneo alla popolazione locale che non ha resistito un attimo senza il potere deterrente dei mitra e dei blindati occidentali a Kabul.

Ma qual è il nesso di questa premessa con le operazioni militari di Putin in Ucraina?

La Russia e, più in generale, l’ex blocco sovietico sono – da sempre – la più importante partita diplomatica per il blocco atlantista: un braccio di ferro da vincere, per gli USA, e un complesso rapporto di vicinato da gestire, per l’Unione Europea.

L’Eurasia, tradendo la continuità e prossimità territoriale, è un continente culturalmente, politicamente e socialmente disomogeneo in cui la dicotomia occidente-oriente prende materialmente vita.

La Russia, ad oggi, aveva costruito un’orbita intorno a sé, costituita dalla “Comunità degli Stati Indipendenti”, che altro non è che un gruppo di Stati a ridosso dei confini della Federazione Russa con l’UE e il Medio Oriente. Un elemento da non sottovalutare, considerando che il pretesto degli ingiustificati e ingiustificabili interventi militari di Putin parrebbe essere il consolidamento dell’area “cuscinetto” che consentirebbe alla Russia di tenere lontani i missili NATO da Mosca.

Da giorni rimbalza sui social una foto che ritrae un Silvio Berlusconi sorridente tra Vladimir Putin, allora neoeletto Presidente della Federazione Russa, e George W. Bush, allora Presidente degli Stati Uniti d’America: era il 28 maggio 2002, all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, a Pratica di Mare (Roma), nel vertice della NATO dove – per la prima volta – l’Alleanza Atlantica aprì all’ex potenza sovietica, ponendo fine alla contrapposizione della guerra fredda e inaugurando una nuova visione unitaria degli equilibri mondiali, in nome della lotta comune contro il terrorismo.

Dopo aver messo a segno un vero e proprio capolavoro diplomatico, le mire atlantiste si rivolsero proprio a quel “cuscinetto” territoriale tra l’Unione Europea, il Medio Oriente e la Federazione Russa che, da sempre (e a ragione), ha rivendicato il proprio ruolo di potenza mondiale e non semplicemente regionale.

Il 21 Novembre 2002, durante il vertice di Praga, sette Stati vengono invitati ad aprire colloqui per unirsi all’Alleanza: Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Slovacchia, Bulgaria e Romania; invito accolto e concretizzato il 29 Marzo 2004, quando si realizza il quinto e più grande allargamento della storia della Nato.

Accanto all’adesione di questo importante gruppo di Stati, tutti ai confini con la Russia o – comunque – precedentemente nella sua area di influenza, la NATO ha intensificato i dialoghi, instaurando le procedure propedeutiche all’adesione, con Bosnia ed Erzegovina, Serbia, Georgia e, appunto, Ucraina. Tutte Nazioni accomunate dalla prossimità territoriale con i confini russi e, quindi, dall’opportunità per la Nato di avvicinare le proprie basi al Cremlino.

È innegabile che il continuo desiderio di allargamento ad est dell’Alleanza Atlantica abbia causato gravi squilibri nei rapporti di forza tra mondo occidentale e la Russia di Putin, incrinando le relazioni tra i due blocchi e consegnando – di fatto – alla Cina l’opportunità di rompere il fronte costruito a Pratica di Mare e alimentare la tensione sui confini europei, tra l’UE e il suo più importante partner ad oriente.

Il conflitto tra Mosca e Kiev affonda radici profondissime nelle altrettanto profonde fratture nella popolazione ucraina, da sempre divisa tra chi riconosce l’indipendenza dalla Russia e tra chi, invece, rivendica lo schema sovietico di dipendenza.

Donbass, Crimea, Donetsk e Lugansk sono aree in cui fa fatica ad affermarsi finanche l’utilizzo della lingua ucraina e che, in 31 anni di indipendenza, non hanno mai reciso il loro cordone ombelicale per identificarsi nella nuova entità statale. L’insofferenza è esplosa definitivamente, sfociando in un conflitto che si trascina del 2014 e che ha visto proprio il Donbass chiedere l’indipendenza da Kiev con un referendum che, seppur non riconosciuto dal governo ucraino e dalla comunità internazionale, ha visto il 79% degli elettori di Donetsk e l’84% degli elettori di Lugansk chiedere l’indipendenza delle rispettive Repubbliche Popolari.

In questo scenario bisogna certamente considerare il contributo europeo ad innalzare il livello della tensione in un contesto assolutamente instabile. I continui tentativi di attrarre Kiev nell’orbita della NATO hanno evidentemente giocato un ruolo fondamentale nella creazione di nuove divisioni nel popolo ucraino, che Putin ha utilizzato come pretesto per invadere – senza resistenze – l’est dell’Ucraina e intervenire per “demilitarizzare” la zona.

L’indipendenza delle Repubbliche Popolari filorusse e il tentativo di impedire l’ingresso dell’Ucraina nell’orbita di Bruxelles sarebbero, quindi, facendo un bilancio finale, le motivazioni che avrebbero spinto Putin ad avviare le operazioni militari tra il 23 e il 24 Febbraio. A questo punto sarà la storia a dirci se le mire espansionistiche della NATO fossero indispensabili e da perseguire whatever it takes, tanto per rientrare nel mainstream, al punto tale da minacciare la pace in Europa dopo 80 anni.

La sensazione è che, ancora una volta, Bruxelles abbia vissuto all’ombra di Washington, assecondando il “risiko” yankee a costo di pagarne care le conseguenze. A partire dal costo del petrolio, passando per l’immigrazione incontrollata, nei conflitti in Medio Oriente e nell’Africa del Nord, arrivando, oggi, alla guerra alle porte di casa nostra e alla rottura dei rapporti commerciali con uno dei principali partner commerciali europei e italiani: quando gli USA si mettono a capo di una coalizione, armata o diplomatica che sia, a pagarne le conseguenze è sempre il Vecchio Continente.

Bisognerebbe, allora, ripensare la NATO e il ruolo dell’Europa al suo interno. Una missione alquanto complicata fintantoché una Nazione come gli Stati Uniti d’America si troveranno a contendere la leadership con una élite tecnocratica fatta di banche e vincoli di bilancio ma senza una vera identità che renda orgoglioso il suo popolo di appartenere alla grande famiglia europea.

È, allora, il caso di parlare di un vecchio sogno chiamato Europa Nazione, che – è oggi chiaro ed evidente – sarebbe l’unica vera garanzia di una pace duratura.

Quanto conviene all’Unione Europea spostare il confine atlantista sull’est dell’Ucraina, considerato che significherebbe correre costantemente il rischio, in una zona oscillante tra sentimenti europei e filorussi, di vedere concretizzarsi lo spauracchio degli articoli 4 e 5 della Carta NATO? Si correrebbe, così, il rischio di invocare l’intervento militare di tutte le Nazioni aderenti ogniqualvolta dovesse palesarsi una minaccia all’integrità o all’indipendenza politica o alla sicurezza di una di esse.

Siamo certi che l’Europa abbia la necessità di affrontare una guerra, dopo due anni di pandemia, per guadagnare l’adesione dell’Ucraina?

Quando Charles De Gaulle si rese conto che l’Algeria era ormai perduta, non essendo territorio francese, decise – andando incontro ad aspre critiche – di proclamarne l’indipendenza pur di non esasperare una situazione già tesa. Oggi, invece, sul Donbass, chiaramente distante dalle posizioni ucraine, si gioca un braccio di ferro che ha generato una situazione assolutamente surreale, probabilmente alimentata dai leaders europei che, anziché porsi da mediatori per salvaguardare la pace, hanno spinto l’Ucraina ad andare fino in fondo in questo scontro. Giusto o sbagliato? Anche in questo caso, ce lo dirà la Storia.

A questo punto, per l’UE si ripropone – per l’ultima volta, probabilmente – un bivio tra assecondare la richiesta di adesione di Zelensky, alimentando le ostilità con la Russia, o mediare il “cessate il fuoco” nel più breve tempo possibile. Sostenere Kiev militarmente e logisticamente è stata, in questa prima fase, una scelta nobile e doverosa per permettere all’Ucraina di difendere la popolazione e resistere, arrivando ai negoziati in una posizione che possa permetterle di affermare le proprie legittime richieste.

Ora, però, la riflessione definitiva credo debba tenere conto del fatto che le relazioni internazionali sono un complesso e articolato meccanismo di equilibri interdipendenti delicatissimi. Più volte, la smania totalizzante del mondo occidentale ne ha minacciato il mantenimento nel globo, giungendo – quasi sempre – a conseguenze disastrose.

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2 Commenti

  1. Il quarto triplo salto mortale senza il supporto della rete di protezione è in atto. Mentre il mondo tutto sta con il fiato sospeso. Ma non soltanto per il fatto che la terza guerra mondiale continua con insistenza a battere alla porta della dissolvenza.
    Intanto, in quell’indispensabile programmazione del domani e dell’accettazione dell’oggi, con cui ciclicamente l’umanità nei millenni ha dovuto fare i conti, «Ieri il premier britannico Boris Johnson ha affermato che la Gran Bretagna è «un Paese molto generoso» ma che vuole mantenere il controllo sugli arrivi».
    Tra l’essere o il non essere una nazione, un uomo di buona volontà, un Giuda o un San Pietro, per le vie delle shakespeariane situazioni che l’uomo, suo malgrado, si trova ad attraversare in questo suo viaggio sulla Terra, è da sempre risaputo che basta un niente. Come, appunto, essere o non essere una Lamorgese.

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