Lo sguardo a destra di Pasolini

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Pasolini fu intellettuale contraddittorio, tanto di sinistra quanto di destra, tentare di dare coerenza univoca al suo pensiero significa necessariamente mutilarlo.

Il 5 marzo 1922, precisamente cento anni fa, nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini: poeta, sceneggiatore, attore, regista, scrittore e drammaturgo, è stato uno dei più grandi intellettuali del secondo dopoguerra.

Un discorso sul suo pensiero deve partire da un fondamentale presupposto: il fatto che Pasolini sia stato un brillante intellettuale non significa che le sue idee non possano essere contraddittorie. Anzi, tentare di dare coerenza univoca al pensiero di un personaggio del suo calibro significa necessariamente mutilarne la figura e limitare la portata rivoluzionaria della sua produzione artistica. Egli andò oltre le vecchie suddivisioni e appartenenze ideologiche e fu proprio questo a renderlo così geniale.

In prima istanza v’è quindi da criticare l’erroneo ritratto che mostra un Pasolini intellettuale unicamente di sinistra. Egli, infatti, fu sì comunista ma con toni fortemente antimodernisti, il suo marxismo fu eretico e reazionario ed il suo pensiero fu sempre marcatamente conservatorista e legato ad un populismo rurale. Per quanto riguarda la storia del poeta, poi, ci si dimentica troppo spesso di alcuni elementi focali, che non poterono fare a meno di porlo in una posizione critica rispetto al PCI: l’uccisione di suo fratello, partigiano, da parte di partigiani comunisti e l’abbandono subito da parte del Partito, che lo cacciò, rinnegandolo, non appena si scoprì la sua omosessualità. Passata in sordina è anche la sua denuncia del potere dilagante della sinistra, astutamente camuffatasi come candida resistenza liberatrice.

La verità è che Pasolini fu intellettuale di sinistra tanto quanto lo fu di destra. A tal proposito egli dedicò uno dei suoi primi articoli all’entusiastico racconto di un viaggio fatto con gli universitari fascisti a Weimar e nella sua ultima poesia parlò di un giovane fascista a cui suggerì d’amare la tradizione di una “destra divina” fondata su tre principi cardine: difendere, conservare e pregare. Inoltre il poeta disapprovò nel’68 la “falsa contestazione dei giovani borghesi, figli di papà coccolati dalla cultura dominante di sinistra”, difendendo i poliziotti, spesso poveri e provenienti dalle periferie. Egli si pose infatti come il vero cantore dei sobborghi, delle campagne, della ruralità, a tutela dei molti particolarismi culturali di cui l’Italia è sempre stata ricca, osservando con lucida preoccupazione il nascente capitalismo consumistico, che tutto stava inglobando e uniformando già cinquant’anni fa. Non a caso la sua poesia nacque nella lingua dialettale materna, il friulano, e nella sua innovativa antologia sulla Poesia dialettale del Novecento (1952) egli elesse i dialetti come vera lingua “patria”, da non opprimere nelle scuole e da non relegare al livello basso della comunicazione.

Ad agevolare lo storico accostamento dello scrittore unicamente alla sinistra è stato il fatto che la destra si è accorta tardi di Pasolini e solo dopo averlo a lungo frainteso e contestato. Per questo motivo, oggi più che mai, è importante ricordare che parlare di Pasolini vuol dire anche parlare di temi cari alla destra, scardinando un ricordo parziale ed errato che troppo a lungo è stato tramandato del suo pensiero. Scriveva Pasolini: “L’Italia non ha avuto una grande Destra perché non ha avuto una cultura capace di esprimerla”. Appare dunque naturale domandarsi se la Destra riuscirà oggi a raccogliere l’invito che il poeta gli faceva più di mezzo secolo fa, comprendendo l’importanza della nascita d’una propria cultura e identità.

Leggete sul numero di CulturaIdentità in edicola l’impareggiabile articolo di Davide Brullo sulle rasoiate linguistiche di PPP, il cui ultimo atto e gesto poetico è stato quello di incarnare il cantore della lingua “diversa” della poesia in friulano con la sua lirica “testamentaria”  Saluto e augurio

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