Luciano Bianciardi: la penna come mannaia contro l’ipocrisia

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Nato nel 1922 in quel di Grosseto, città identitaria, Luciano Bianciardi, è stato uno dei più grandi, eppure misconosciuti intellettuali italiani, anche se certamente non avrebbe gradito tale definizione, essendo il primo a denunciare la cultura italiana, in ispecie quella di massa, con sferzante e calibratissimo umorismo: dal culturame politicamente orientato, ai salotti buoni, dalle presentazioni di libri ai premi e convegni affetti, allora come oggi, dal peggior amichettismo, in una gara a chi meglio sa adeguarsi al gusto del pubblico e ai dettami del potere.

Sono però tanti i meriti, se non vogliamo dire culturali, senz’altro letterari, di quest’uomo ironico, sagace, dalla schiena dritta e dalla penna affilata come una mannaia, nello stesso campo in cui bazzicavano e bazzicano, spesso indegnamente e con maggior successo di lui, gli intellettuali impegnati.

Perché Bianciardi fu scrittore, e che scrittore, giornalista, bibliotecario, persino brillante traduttore – sì, anche questo fa – per anni si mantiene traducendo ogni giorno tante pagine quante gliene servono per campare, eppure lo fa benissimo, tanto da consegnare alla nostra cultura autori che poi tutti leggono, da Henry Miller a William Faulkner.

Bianciardi ha però legato a filo doppio il suo nome all’acume beffardo con cui ha fatto a fettine un’intera epoca: quella del boom economico, con il suo corredo di menzogne, la montante ipocrisia di contorno, contro cui ha lanciato la sua fiera ribellione come una bomba atomica. E lo fa con un romanzo memorabile che gli assicurerà un po’ di successo, di notorietà, financo un po’ di soldi, e in misura pari nuovi grattacapi e processi penali: il magnifico La vita agra, che dà alle stampe nel 1962 per i tipi della Rizzoli (ma in seguito gli capiterà spesso di lavorare per conto di Giangiacomo Feltrinelli, il celebre editore miliardario con il pallino del colpo di stato (di sinistra), che lo apprezza. Apprezzamento non ricambiato: “è ignorante come il tacco di un frate”, lo fulminerà Bianciardi con una delle sue invettive meglio riuscite). Un paio di anni dopo il libro diventerà anche un film di successo, diretto da Carlo Lizzani, con un Ugo Tognazzi in stato di grazia.

Nato a Grosseto, dicevamo, nella città natia torna dopo la laurea, iniziando un rapporto con essa di amore e odio che è tipico di ogni grande amore. Qui fa per un po’ di anni l’insegnante, prima in una scuola media, poi nel locale liceo, e appunto poi si dedica a riattare la biblioteca Chelliana, devastata da un alluvione. È sempre lui a creare un primo circuito di bibliobus, perché libri e giornali, in una parola conoscenza e consapevolezza, arrivino anche ai borghi più piccoli del grossetano. Ma il punto di svolta della sua vita è nel 1954, quando si trasferisce a Milano, dove entra a tutti gli effetti  nel mondo dell’editoria, in quegli anni in gran fermento.

In città, nella grande città non ancora da bere, ma che ci è già molto vicina, ci va per trovare un ambiente più consono alla sua aspirazione di serietà, di purezza umanistica, per costruire davvero quel mondo migliore in cui crede, ma non incontra altro che una ennesima  industria, nel senso però becero e disumanizzante del termine. Un carrozzone, che ormai bene conosciamo, dove si agitano figure di mediocri arrivisti, dove imperano tic e mode, e volgarità ammantata da intellettualismo.

L’intellettuale, invece di essere una figura ribelle e indipendente, diventa a sua volta un ingranaggio della macchina produttiva, intento a scrivere articoli e saggi che nessuno leggerà davvero, o a partecipare a convegni inutili. 

E questo ambiente è proprio quello che fa da sfondo a La vita agra, in cui un uomo onesto di provincia (un suo alter ego) viene a Milano con l’intenzione, più immaginaria che concreta, di vendicare i minatori vessati e martoriati della sua terra (perché anche questa è la Maremma) facendo saltare in aria il grattacielo della grande azienda per cui lavora. Un atto simbolico e letterario di ribellione che si dissolve in un adattamento sofferto alla realtà metropolitana, ma che lascia una traccia indelebile.

Tutto nasce da un’esplosione di grisou in una miniera di Ribolla, nel grossetano, che provoca la morte di oltre quaranta minatori. Una tragedia nazionale, tra i più grandi massacri sul lavoro di sempre. Il caso vuole che tra quei minatori da tempo si fosse attestato, con la sua ansia di conoscenza, di giustizia sociale, proprio Bianciardi, in buona compagnia di un altro valente scrittore, Carlo Cassola. Quando gli scrittori arrivano, i minatori sono per loro, oggetti di studio. Quando incombe la tragedia, si sono già trasformati in fratelli. Un disastro annunciato, dovuto a condizioni di lavoro proibitive, a misure di sicurezza a dir poco scandalose.

“Ho scelto di star dalla parte dei badilanti e dei minatori della mia terra – scriverà Bianciardi –, quelli che lavorano nell’acqua gelida con le gambe succhiate dalle sanguisughe, quelli che cento, duecento metri sotto terra consumano giorno a giorno i polmoni respirando polvere di silicio. Anche loro hanno bambini come il mio, hanno un avvenire da costruire”.

La Milano in cui si trasferisce, quella degli anni Cinquanta, non si rivela però quella che sperava. Se era partito per sfuggire l’isolamento e l’immobilismo della provincia, nella capitale morale d’Italia non trova quello che cerca. Una classe operaia disgregata e abbrutita dalla fatica, una cultura consegnata integralmente alla sinistra parolaia, dove ogni cambiamento sembra impossibile, mentre si diffonde una omologazione di massa, e tutti già inseguono la sirena del consumismo. “Da qui si usciva in due modi, pensai: o coi piedi avanti, o raccontando la propria rabbia”, come confessa in una lettera.

Nella sua prosa, sempre più affilata, Bianciardi non risparmia nessuno: editori, giornalisti, scrittori, accademici, tutti colpevoli di aver trasformato la cultura in un prodotto di consumo, in una merce come qualsiasi altra, e di aver tradito la loro funzione critica.

Negli ultimi anni, amareggiato e ammaccato dalle tante lotte verbali, dalle tante polemiche e dallo scarso apprezzamento da una società ingrata e ancora incapace di comprenderne la grandezza, Bianciardi si ritirò sempre più dalla scena pubblica, fino alla morte prematura nel 1971, a neanche cinquant’anni. Oggi è unanimemente considerato uno degli scrittori più lucidi e profetici della letteratura italiana del Novecento, un autore che ha saputo raccontare il lato oscuro della modernità con ironia e amarezza.

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