Ma il conservatorismo è identità, territorio e autonomia

0

Da Atreju sono venute conferme importanti per un progetto identitario costruito su base territoriale come CulturaIdentità, che ha sposato da tempo la causa del tradizionalismo conservatore in una chiave ed un linguaggio contemporaneo, tra tradizione ed innovazione.

È indispensabile, oggi più che mai, che la destra partitica si doti di una cornice culturale credibile e di una base “metapolitica” conservatrice, a patto che scaturisca da un’analisi il più possibile razionale, aperta, che vada “oltre” la politica degli apparati e, soprattutto, non si riduca a mera opportunità per vecchi e nuovi arrampicatori e salottisti, alcuni dei quali sopravvissuti al naufragio di esperienze “altre” e che si improvvisano improbabili spin doctor della nuova casa politica. In assenza di una metapolitica seria e consapevole, il rischio principale che si corre è di vanificare il progetto coraggioso e ambizioso di Giorgia Meloni.

Detto in altri termini, quanti salgono sul carro conservatore con l’ambizione di guidarlo, a livello culturale, oltre che politico-pratico, dovrebbero sapere bene che cosa esso trasporta.

La storia del conservatorismo, a cui chi scrive ha dedicato gli ultimi venti anni delle sue ricerche, è molto complessa. La stessa, atavica questione definitoria dell’“essere conservatore”, che dura da oltre due secoli, non si risolve con qualche instant book rabberciato con il copia e incolla da Wikipedia per spicciole esigenze di mera visibilità mediatica o per operazioni di puro marketing politico.

Tanto per cominciare, il conservatorismo italiano è sempre stato solo “intellettuale”, frutto cioè dell’espressione libera dei Montanelli, dei Prezzolini, e prima ancora anche dei Mosca, Pareto e Michels. Era quello il salotto buono della destra, frequentato da gente non organica ai partiti in un paese che è sempre stato più conservatore delle forze politiche che avrebbero potuto rappresentarlo e non l’hanno mai fatto. È stata la Democrazia Cristiana a intercettare per decenni il consenso conservatore facendo leva sull’anticomunismo e la tradizione cattolica. Ma guai a dare del “conservatore” a un missino: era quasi un’offesa, essendo la destra italiana per tradizione modernista, futurista e, soprattutto, statalista nel senso gentiliano del termine. Sì, perché è impossibile essere conservatori propugnando lo statalismo centralizzatore e un nazionalismo troppo spinto.

Inoltre, chi si intende di storia del conservatorismo anglo-americano, quello, per intenderci di Burke, ma anche di Hume, e poi di Kirk, Scruton e altri citati in questi giorni nei think tank “ufficiali” del conservatorismo italiano, sa bene che la “dogmatica” che differenzia il conservatorismo tanto dal socialismo quanto dal liberalismo consiste nella “fede” nei corpi intermedi, in quelle “piccole patrie” che hanno strenuamente resistito alla persecuzione totalitaria e costituiscono l’unico baluardo possibile contro l’invasione del totalitarismo burocratico e al riparo dalle schizofrenie dell’individualismo.

Il conservatorismo è una critica serrata al debito pubblico, il male peggiore della centralizzazione politica, e all’egalitarismo livellatore e assistenzialistico, oltre che all’individualismo liberale. La sfida di una politica autenticamente conservatrice sta nella strenua difesa del costume nazionale, della religione, della famiglia, delle istituzioni ereditate, in una parola dell’identità, nonché nella tutela delle comunità naturali e dei territori, nel mantenimento dell’autonomia e della tradizione locale contro le pretese dell’universalismo anti-identitario.

Insomma, una destra conservatrice non può prescindere dall’autonomismo organicistico, quale intermediazione necessaria tra l’individualismo e il collettivismo. Le comunità proteggono le identità e allevano le libertà solo in un certo grado di pluralismo sociale e decentramento politico. Come hanno insegnato le dottrine di Burke, Bonald, Hegel, Tocqueville, Disraeli, Newman, Bourget a Oakeshott, Voegelin, Nisbet e altri ancora, la relazione politica, in uno stato a guida conservatrice, non si stabilisce tra il governo centrale e l’individuo, ma tra il governo e le istituzioni più prossime all’individuo: municipi, province e regioni.

Ovunque si sia affermato, il conservatorismo ha sempre combattuto il collettivismo e la pianificazione centrale, a difesa di quell’autonomia, di quell’ethos dei territori e quelle specificità locali di cui la Lega si è recentemente liberata nel tentativo di correggere la sua rotta verso il liberalismo berlusconiano. Può essere un’occasione irripetibile per il partito di Meloni aprirsi alla prospettiva autonomista che, sempre nell’alveo rassicurante e indiscutibile dell’unità nazionale, potrebbe offrire notevoli opportunità per le regioni, specialmente al Sud.

Del resto, la vera sfida dei conservatori, in questo che è il Paese più municipalista del mondo, è la costruzione di un laissez-faire fondato non più sull’individuo astratto di matrice liberale ma sulla necessità della valorizzazione dei corpi intermedi – famiglie, associazioni, quartieri, comuni, chiese, sindacati, ecc. – in un decentramento che diventa, oggi che il potere ultimo dello Stato non è più in discussione, la necessità primaria per un pieno godimento delle libertà.

ABBONATI A CULTURAIDENTITA’

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

uno × uno =