Marco Gervasoni: “Il virus è un prodotto della globalizzazione”

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Se abbiamo oramai imparato a orientarci tra i numeri di questa pandemia, risulta ancora difficile orientarsi tra i fatti. L’instant-book in edicola giovedì con Il Giornale Coronavirus: fine della globalizzazione di Marco Gervasoni e Corrado Ocone assolve a questo scopo. Il testo, diviso tra un approfondimento storico-politico e uno filosofico, è un grandangolo sui giorni che stiamo vivendo e sulle loro conseguenze. Ne parliamo con Marco Gervasoni.

La pandemia, lei scrive, mette in crisi globalizzazione e globalismo. Ma qual è la differenza?

«La prima è un processo economico iniziato negli anni ‘70, intensificatosi dopo la caduta del Muro di Berlino e che ha subito duri colpi nella crisi del 2008 e nel 2016, con il referendum sulla Brexit e l’elezione di Trump. Il virus è in un certo senso un prodotto della globalizzazione e affonda le sue radici nella decisione di Clinton di inserire la Cina nel WTO. Il globalismo è l’ideologia asservita a questo processo. Parlo, per fare un esempio, dell’apertura delle frontiere chiesta a sinistra».

E che adesso dispone l’opposto

«Il rischio è appunto che le tematiche nazionaliste se le intestino i globalisti, in un momento di crisi della loro ideologia. D’altronde avevamo già assistito i comunisti spacciarsi per liberali all’indomani della caduta del Muro. La critica della globalizzazione fatta da sinistra – ricordo il G8 di Genova – è sempre stata debole perché fatta da un punto di vista internazionalista. Quella fatta a destra, in senso conservatore, è molto più radicale perché scardina uno dei suoi presupposti fondamentali».

In questi giorni si direbbe che il Governo stia mutuando anche i provvedimenti dalla destra…

«Arrivati per giunta in ritardo. Dall’insaturazione, il 31 gennaio, dello stato di emergenza, il Governo ha cominciato a prendere provvedimenti solo dopo tre settimane. Prima, si è prodigato piuttosto a tutelare la Cina e la sua immagine. Il “metodo Conte”, spacciato come di grande successo e come lezione di liberalismo e democrazia, ha di fatto instaurato un clima di grande conformismo».

E l’opposizione?

«Ha un ruolo molto difficile, col Parlamento che lavora a metà. Non accade lo stesso in Spagna o in Francia, dove l’opposizione critica il governo senza che nessuno la inviti a posizioni più miti alla luce dell’emergenza. Perfino Tajani, non proprio un estremista, ha evidenziato che il Governo pare non abbia alcuna intenzione di ascoltare. E nel dibattito, invece, è vittima di un golpe televisivo per cui in trasmissione vengono invitati solo coloro che sono allineati».

Ieri è tornata in edicola Culturaidentità…

«Si tratta di una meritoria operazione di ricostruzione “intellettuale e morale” del senso di appartenenza a una terra. Abbiamo bisogno di questa ricostruzione perché il fallimento di cui parlo nel mio libro non è solo di un’ideologia, ma complessivamente di una cultura concepita – a sinistra – solo in termini partitici e a sfondo progressista, dove invece va allacciata a una tradizione e a un’identità nazionale».

In questo numero si parlerà di eroi: chi sono quelli contemporanei?

«»Va innanzitutto recuperata la nozione di eroe, dove la sinistra ha spesso piegato ai suoi fini la citazione di Brecht per cui è “beato il popolo che non ne ha bisogno”. È vero il contrario. In questa fase penso soprattutto a medici e infermieri, ai sacerdoti e agli imprenditori che resistono tra mille difficoltà».