11 anni dopo il sisma L’Aquila città di speranza

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La Fontana Luminosa, realizzata da Nicola D'Antino momo from Hong Kong / CC BY (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)

Non è mai semplice per un aquilano o per un abruzzese riuscire a parlare del 6 Aprile. È una data che porta con sè un’infinità di ricordi: la paura della scossa, lo spaesamento delle prime ore, lo sconcerto per la conta dei morti e dei danni alla nostra splendida città, mai abbastanza conosciuta ed apprezzata, in primis da noi aquilani.

Scrivere del 6 Aprile 11 anni dopo, nel 2020, è ancora più difficile. è la prima volta, dal 2009, che la data del 6 Aprile corrisponde, come allora, con il lunedì santo. La notte della scossa era proprio la notte che ci porta dalla domenica delle palme al primo giorno della settimana santa. Per tutti noi il ripercorrere, seppur in quarantena, la stessa ritualità è stato un crogiolo di emozioni e di ricordi che riaffiorano dalla memoria.

Ed è la quarantena stessa l’altro motivo per cui oggi è ancora più difficile parlare del 6 Aprile.

Come scherzosamente, ma non troppo, scrisse qualche settimana fa una pagina facebook di satira locale: “ Un aquilano ha visto troppe zone rosse per una vita sola”. Vivere questa giornata in una situazione di emergenza, questa volta nazionale, ha ancora purtroppo il sapore della difficoltà e dello smarrimento, nell’affannosa ricerca di quel “Domani”, come cantarono tanti artisti italiani all’indomani del sisma,  che oggi come allora non sembra “già qui” ma anzi ci sembra lontano e spaventoso.

Non vorrei però soffermarmi troppo sul ricordo di quel giorno che rimarrà indelebile per sempre nella nostra memoria, di cui tanto si è parlato, ma vorrei provare a guardare al futuro e guardarlo con gli occhi di chi crede che anche il peggiore dei mali non abbia mai l’ultima parola. Lo dobbiamo per prima cosa alle 309 vittime e lo dobbiamo in parte anche a noi stessi.

Voglio sfruttare queste righe che mi sono state concesse per dire da aquilano, in questa giornata così simbolica, una parola diversa dal semplice ricordo.

La tentazione di fare un grande spot alla mia città è forte. Raccontarvi dei grandi santi che l’hanno attraversata. Celestino V, il papa del gran rifiuto, eremita ascetico e duro come le nostre montagne, oppure avrei potuto parlare di San Bernardino da Siena, morto qui e qui custodito nella sua stupenda basilica. Avrei potuto provare a descrivere la maestosità del Gran Sasso ma invece voglio parlare di altro.

Se mai, dopo la quarantena, avrete voglia di girare i vicoli della nostra città, ammirare le nostre bellezze storiche e paesaggistiche, gustare i nostri sapori: potrete facilmente percepire che, oggi, L’Aquila non è sinonimo di lutto ma bensì di speranza.

In questi anni  ho sempre creduto, forse  peccando e di questo chiedo perdono, che il giorno in cui tutto accadde 11 anni fa non è del tutto privo di significato. Parla l’uomo di fede adesso, e perdonatemi se in questa situazione non riesco a scindere il ruolo di semplice cronista  da quello di persona profondamente credente. Attraversare l’ora più buia nella settimana che conduce il Cristo dalla sofferenza della croce alla gloria e gioia della resurrezione credo sia quanto di più concreto e confortante un cristiano possa chiedere. Se non siete credenti potete leggerlo come un’allegoria del trionfo della vita e della volontà contro ogni destino avverso.  Sinceramente non ritengo un caso, anzi una scelta più che mai azzeccata, che sulla copertina di CulturaIdentità di questo mese si stagli vigoroso e possente il Cristo risorto di Piero della Francesca.

Chi crede sa bene che la Domenica di Pasqua è un dono, non è qualcosa che ci possiamo guadagnare da soli con le nostre forze; come i primi discepoli, anche noi, siamo chiamati alla fedeltà nell’attesa. Con le nostre paure, i nostri smarrimenti e i nostri tradimenti. Fedeltà nell’attesa significa essere, nel nostro piccolo, protagonisti della ricostruzione delle nostre comunità e della nostra nazione. Fedeltà nell’attesa la dimostrano oggi, come allora, i volontari della protezione civile, medici,infermieri ed ogni uomo o donna che con coraggio e dedizione mettono in gioco se stessi e le loro capacità, senza badare a nient’altro che non sia il bene dell’altro. Il 6 Aprile 2009 sono stato testimone che c’è un’Italia fatta di coraggio e di amore che si è “catapultata sulle nostre ferite” per aiutarci a rimetterci in piedi. Anche oggi ognuno di noi, chi da casa o chi  in prima linea, può portare testimonianza di questa fedeltà, per arrivare pronti a quella  resurrezione a cui tutti siamo chiamati: come persone, come aquilani e come italiani.

Per concludere voglio usare una frase molto famosa che Benedetto Croce pronunciò, nel 1910,nel famoso discorso che fece nel piccolo paese di Pescasseroli, dove nacque e dove tornò ormai adulto, dopo una vita vissuta a Napoli:

“A Napoli ho svolto la mia attività di uomo di studio, tra compagni carissimi e giovani che mi si son fatti spontanei discepoli. Eppure io ho tenuto sempre viva la coscienza di qualcosa che nel mio temperamento non è napoletano. Quando l’acuta chiaroveggenza di quella popolazione si cangia in scetticismo e in gaia indifferenza, quando c’è bisogno non solo di intelligenza agile e di spirito versatile, ma di volontà ferma e di persistenza e resistenza, io mi son detto spesso a bassa voce, tra me e me, e qualche volta l’ho detto anche a voce alta: – Tu non sei napoletano, sei abruzzese! – e in questo ricordo ho trovato un po’ d’orgoglio e molta forza.” (non me ne vogliano i miei amici napoletani)