“Per una primavera di bellezza” con d’Annunzio

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Senza i “gentili errori” della passione, per Leopardi la vita “è notte senza stelle a mezzo il verno”, endecasillabo spettrale. Ecco, Gabriele d’Annunzio ha impiegato ogni sforzo per fare di sé un’estate, un meriggio, una primavera, una distesa rossa di foglie di acero. Un fuoco rutilante. Tutto, ma non la freddezza. Tutto, ma non il buio, il vuoto, il gelo, la morte della rinuncia, il nichilismo definitivo. Tutto, anche l’inganno trasfigurante del canto e gli scherzi macabri della guerra. In questo ha avuto per guida il più eroico-erotico tra i filosofi: Friedrich Nietzsche, che ha benedetto con la sua morte il Novecento, il secolo dei fascisti e degli antifascisti e di poco altro.

Francesco Ingravalle, in Per una primavera di bellezza (Edizioni di Ar, 2020 pp. 112, € 12,00), coglie il nesso evidentissimo che lega Nietzsche, d’Annunzio e i fascismi. Senza ipocrisia o attenuazioni. Innumerevoli tracce, sia letterarie che esistenziali, rivelano come il Vate abbia acceso la sua fiaccola di poeta e avventuriero nel cuore del vulcano Nietzsche. La festa di Fiume, questa “liturgia della potenza”. Il “vivere pericolosamente”. L’ebbrezza di amore, amori. La ribellione “contro la morte maledetta”.

Il poeta-soldato compone il “lirico ordine nuovo di Fiume” quasi come omaggio al superuomo nietzschiano e al suo mondo perfetto. Inneggia a una superiorità di corpi forti e felici, frecce tese verso l’alto, parola che è un sospiro di deliziata superbia. Alto, nobile, grande. Bello.  

Nietzsche era spuntato all’improvviso, imprevisto e scandaloso, brandendo queste idee, in un contesto in cui la filosofia tedesca era fatta di concatenazioni di concetti da epigoni del più sterile aristotelismo. La sua urgenza di significato ci ha dato opere in cui l’inchiostro brucia e incide segni di destino. Fin dalla prima, La nascita della tragedia, dove la filologia impazzisce in nome della vita, che venne accolta con smorfie maligne dagli accademici. Perché l’ispirazione poetica guarda la realtà dall’alto, non ha la pazienza di trapuntare la scrittura di note e citazioni dotte. Non è realista. Non cede alla tattica, alla diplomazia, alla gradualità, alla paziente costruzione di piccolissime cose. Al così fan tutti per cui sono tutti mortalmente tristi.

Ma neanche Fiume è realista, per quanto reale, ed è lì il romanzo, la poesia, la “favola bella” di d’Annunzio. È quella la sua grandezza. Chi ci crederebbe se gli raccontassimo che un poeta ha raccolto intorno a sé un manipolo di coraggiosi e in pochi che erano hanno buttato all’aria le carte degli accordi internazionali? E che lì, a Fiume, si faceva festa tutto il giorno e tutta la notte, e ci si amava e armava, armava e amava, e si pensava a costruire mille nuovi Partenoni e a centuplicare i Michelangelo, i Dante Alighieri, i Leopardi fino a trasformare la storia in una poesia. Sì, altro che il freddo e il buio. Sì – alla vita e al suo sangue di fuoco. Ma chi ci crederebbe?