Perchè la pittura vale ancora e vale dipingere un bel quadro

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Nella contemporaneità ogni cosa può essere un’opera d’arte e l’arte contemporanea è appunto tante cose: ready made, assemblaggi, oggetti presi a caso, oggetti non fatti dall’artista, fatti digitalmente, copiati, riusati, e poi performance, messe in scena, fotografie, video. L’unica tecnica guardata con sospetto è la pittura e, ancora più con sospetto, il quadro dipinto. Per definizione, nei luoghi del contemporaneo, musei e fiere, viene esclusa la presenza di qualsiasi cosa bella, la Bellezza è bandita, è bandita la pittura di figurazione, e quando c’è deve trattarsi di pittura orrenda, o di una figurazione sciatta, poiché solo se è orrenda e fatta male può essere considerata “contemporanea”. Sembra che i direttori di musei e i curatori non abbiano più fiducia negli strumenti tradizionali dell’arte visiva della tradizione, non credono più che il pittore possa dire qualcosa al mondo dipingendo un quadro, utilizzando i propri strumenti, come il pennello e i colori.

Questa sfiducia nei confronti della pittura è certo frutto di un’iconoclastia che è una reazione comprensibile dell’artista e del critico al profluvio quotidiano di immagini dei media e dei social. Ma già con le avanguardie e soprattutto con l’arte concettuale gli artisti avevano smesso di indagare l’oggetto del fare arte, che è un tendere alla Bellezza del fatto bene: non – si badi – la bellezza consolatoria del pittorialismo buono per i mediocri, semmai la bellezza della vera arte che emenda perfino il brutto attraverso la perfezione della forma. Di fatto la bellezza impone ordine nel caos, è un valore che tende ad aggregare mentre tutto si disgrega e finisce. In questo senso, l’arte è un’attività del tutto umana, un modo per difendersi dall’entropia, dalla morte. La bellezza dell’opera d’arte rimanda inoltre al divino, rimanda a una bellezza più grande che ci sovrasta e che non possiamo cogliere se non nel frammento. Ed è il potere dell’opera d’arte vera, mettere in moto questo rispecchiamento. L’arte concettuale, cioè l’arte contemporanea, invece invecchia perché i concetti invecchiano. Prendiamo la celeberrima merda d’artista: Manzoni trae le giuste conseguenze del ragionamento di Duchamp, lo porta egli estremi, se qualsiasi cosa prodotta dall’artista è un’opera d’arte, lo è anche la merda che né è intima produzione. In piena temperie new dada, l’estremizzazione di Manzoni, plasticamente realizzata nella scatoletta, è una buona battuta, geniale, che ripetuta infinite volte non fa più ridere.

Ed invece il lavoro dell’artista deve esemplificarsi nella libertà piena del fare, cioè nel caso di specie del dipingere. Nella massima libertà che sta tra la progettazione e la realizzazione si fa l’arte, anzi non esiste progettazione disgiunta dalla realizzazione, l’opera d’arte avviene mentre si sta facendo, e l’artista è libero in ogni momento di farla diversamente, egli non risponde a un disegno, né a un progetto, trova il modo di farla, il come, perfino il perché, mentre la fa. E potrebbe perfino non farla, non portarla a termine. E’ la libertà della creazione che assomiglia alla libertà di Dio. Lo spiega Iosif Brodskij, il poeta si fida “dei moti della mano”, non ha uno schema preordinato, mentre scrive le parole e le rime gli suggeriscono una corrente da seguire, ogni parola echeggia nel cervello e nell’anima del poeta, e quanto più è densa la preparazione e lo studio, tanto più quella parola troverà rispondenze.

Il talento allenato consente dunque all’artista di “portare a termine” l’opera nel migliore dei modi, appunto di renderla “perfetta” nel senso etimologico di cui si diceva prima. Non avrebbe potuto esistere altro artista che potesse portare a termine il David tranne Michelangelo, poiché facendolo lo faceva e il David è espressione del suo genio; così nessun altro tranne Rodin avrebbe potuto fare un Rodin, e nessuno tranne Giacometti avrebbe potuto fare un Giacometti. Questa considerazione è semplice da capire. L’opera è connaturata con l’artista. Quanto più l’artista è un vero artista tanto più troverà le proprie soluzioni per portare a compimento l’opera come intendeva. L’artista di fatto è il miglior facitore della propria opera. Una volta fatta l’opera, altri possono copiarla, o lavorare “alla maniera di”, ma finché l’opera non è messa in opera, nessuno potrà mai sapere che opera sarà. Perfino l’artista prima di farla non la sa. Dunque quel tempo tra l’inizio e la fine dell’opera è il tempo dell’arte e della Bellezza, è il tempo della libertà assoluta nella quale l’artista si cimenta con sé stesso e con il mondo, asseconda la propria musa o il proprio demone, paragonandosi a Dio crea e talvolta, rari casi, raggiunge la perfezione.

Oggi però molti artisti non sono i facitori della propria opera, ed è un problema. L’artista concettuale pensa una cosa e poi chiama un altro a fabbricarla. Per esempio, Cattelan: i suoi famosi manichini sono costruiti da un artigiano. Oppure Jeff Koons le cui mega sculture sono realizzate nelle acciaierie. Così però egli si nega il momento creativo che non sta nella progettazione bensì nella costruzione, ci si nega quella libertà assoluta di fare una cosa mentre la si fa e di avere di fronte – come avrebbe detto T. S. Eliot – un terreno inesplorato in cui ci si inoltra con un equipaggiamento sempre logoro, poiché le parole che abbiamo imparato non servono mai per spiegare quello che ancora non conosciamo. Questo territorio inesplorato è il regno della possibilità, delle infinite possibilità per cui iniziando il verso non sappiamo dove ci condurrà la rima, tanto che il poeta può arrivare a dire cose che neppure sapeva e che neppure le cose sapevano di essere: è l’aspetto profetico della poesia e dell’arte in generale.

Per questo ragionamento, dobbiamo fidarci del pittore, di chi ancora umilmente ha fiducia di poter fare qualcosa di bello, e lo fa dipingendo perfino un piccolo quadro.