#PILLOLE DI #BRIANZA: coltura e allevamento in età romana

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“Tera negra fa frument, terra bianca la fa nient”, ovvero “Terra nera (= ben concimata) produce frumento, la terra bianca non dà niente”, ma anche “In temp de segherìa no se dis né pater né avemaria”, cioè “ In tempo di mietitura si lavora così tanto che non c’è tempo nemmeno di fare preghiere”: sono solo alcuni dei proverbi brianzoli legati alla lavorazione della terra, a testimonianza di quanto l’agricoltura, in Brianza, abbia svolto da sempre un ruolo importante. Nonostante negli ultimi anni l’industrializzazione abbia ridotto di molto le colture qui presenti, tuttavia una grande conferma della vocazione rurale di questo territorio fin dai tempi antichi viene dagli scritti a noi pervenuti di alcuni autori di età romana.

La prima fonte a nostra disposizione per cercare di farci un’idea generale su quella che fosse la situazione economico-agricola di queste terre ci viene da Polibio, storico di origine greca del II secolo a.C. e uomo di vastissima cultura, che a Roma gli garantì l’amicizia dell’importante famiglia degli Scipioni. Nelle sue “Storie”, una piccola parte è dedicata anche alla descrizione delle popolazioni del Nord Italia, territorio di recente annessione romana. A dispetto della loro origine “barbarica”, le popolazioni qui stanziate avevano perso da tempo il loro carattere semi-nomaidico per dedicarsi ad una più pacifica agricoltura. Certamente una grande influenza in questa trasformazione la ebbe il substrato culturale etrusco, il cui influsso nella regione padana è abbastanza documentato (vi è anche chi ha sostenuto che la città di Melzo, a poca distanza da Monza e Milano, fosse proprio un centro etrusco). Polibio, proseguendo nella sua descrizione, ricorda come nel II secolo a.C. i prodotti principali di questo territorio fossero vino, miglio, orzo e frumento, che veniva venduto a prezzi bassissimi: per farsi un’idea, basti pensare che 1 medimno (= 52 litri) di cereali a Roma veniva venduto ad un prezzo ventidue volte maggiore di quello padano. La ricchezza del territorio, agli occhi dello storico, era confermata anche dalle abitudini delle osterie locali, che offrivano agli avventori l’occorrente a “forfait” per un quarto di obolo, monete spicciole. Per quanto Polibio sia degno di fede (molto probabilmente attorno al 150 a.C. fu di persona in Val Padana), i confini dei territori a cui si riferisce risultano troppo vaghi per indicare precisamente l’area di nostro interesse: Polibio infatti nella sua descrizione si riferisce alla “ pianura a sud della catena delle Alpi fra Marsiglia e Sinigallia”, ed è quindi probabile che l’abbondanza di frumento a cui fa cenno sia piuttosto da riferire alla bassa valle del Po, più adatta a queste colture.

Lo storico greco, però, cita anche un’altra particolarità dei territori transpadani: “l’abbondanza delle ghiande che qui è peculiare, si può facilmente dimostrare che sia dovuta ai querceti, disposti ad intervalli fra gli appezzamenti coltivati. Infatti, per le moltissime vittime sacrificali che si attuano in Italia con immolazioni di porci, come per il consumo privato che per quello delle legioni, tutta la fornitura proviene da queste pianure”. Questa notizia ci è confermata un secolo e mezzo più tardi da Strabone, geografo di età augustea, che nella sua “Geografia” in riferimento alle terre situate oltre il Po scrive: “la terra che si coltiva qui produce molti frutti di ogni tipo; e le selve sono così ricche di ghiande che i porci qui allevati forniscono il nutrimento alla maggior parte della cittadinanza di Roma”. Le riforme amministrative attuate proprio da Augusto e la divisione dell’Italia in dodici “regiones” ci permettono di affermare che il territorio a cui si riferisce Strabone sia effettivamente più vicino all’area di nostro interesse. Ghiotti di ghiande, comuni e poco costosi, è la loro stessa etimologia a fare luce sulle caratteristiche dei maiali: sembrerebbe infatti che il termine suino (“sus” in latino) derivi da una radice indoeuropea *su- , “generare”, in riferimento alla prolificità delle scrofe. Presso i Romani, specie nei rituali più arcaici, come quello di Cerere, i maiali erano molto spesso scelti come vittime sacrificali proprio per la loro economicità e grande disponibilità, oltre al loro grasso, simbolo di abbondanza: basti pensare che ancora oggi a Capodanno lo zampone di maiale sia un piatto di buon auspicio, nella speranza di un anno prospero e ricco come la pietanza della tradizione.

Al di là dell’allevamento suino, però, le notizie più certe sulle attività agricole dell’area brianzola in età romana provengono da importanti personalità politiche e letterarie dell’età alto imperiale: Plinio il Vecchio, e suo nipote, Plinio il Giovane, di cui parleremo settimana prossima.

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