La cucina italiana non è solo una questione di gusto, ma di identità, cultura e passione. È un viaggio attraverso i secoli, un racconto di persone, luoghi e tradizioni. Già, perché in Italia il cibo è molto più di un semplice nutrimento. È un atto di generosità, accoglienza e sapienza.
Persino in molte pagine della letteratura italiana o dietro di esse, si nascondono spesso tracce di un altro racconto, altrettanto avvincente e ricco di sfumature: quello dei gusti e delle passioni culinarie di uomini che hanno contribuito a rendere grande il nostro Paese. Dietro le penne che hanno plasmato la nostra cultura si celano spesso storie di piatti e di gusti. Un viaggio tra parole e sapori, per scoprire che l’intreccio tra il mondo culinario e la produzione letteraria di molti scrittori italiani si rivela spesso più intimo di quanto si possa immaginare. Esperienze gastronomiche che non solo riflettono il contesto storico e culturale in cui sono vissuti, ma che hanno influenzato profondamente la loro creatività e la loro visione del mondo, tramandata attraverso le loro opere.
Partiamo, dunque, da Giuseppe Mazzini (1805-1872) che, costretto all’esilio a Londra agli inizi del 1837, racconta con rammarico, in una fitta corrispondenza epistolare con la madre, che nessuno mangiava le cervella fritte, così come la pasta fresca, quella proprio non si trovava! Il genovese, le chiede di inviare a Londra un buon formaggio, le forme per fare i corzetti e la rotella per i ravioli. In uno dei pacchi alimentari si evince che sempre lei, la madre, gli mandava dolci generi di conforto, detti recilli, frutta secca e pandolce. Mazzini ripensava a certi frutti che un tempo avevano deliziato il suo palato. Potremmo, dunque, considerare l’idealismo di Mazzini come parte del contesto storico e culturale che ha contribuito a plasmare l’identità nazionale italiana, inclusa la sua cucina.
«Il vero lusso d’una mensa sta neldessert», affermava Gabriele d’Annunzio (1863-1938) ne «Il piacere». Il vate, noto per il suo gusto per il bello e il buono, amava organizzare sontuosi pranzi e cene raffinate, in cui la presentazione dei piatti e la qualità degli ingredienti avevano un ruolo centrale. Una ben nota predisposizione alla ricerca del piacere, la sua, attraverso tutti i sensi, compreso il gusto. D’Annunzio amava privatamente cibi semplici e genuini e, in terra d’Abruzzo, uno dei dolci di eccellenza è il parrozzo (pan rozzo), la pagnotta povera, arricchita di farina di mandorle, ricoperta di cioccolato. Fu proprio d’Annunzio tra i primi ad assaggiarlo, rimanendone così deliziato dalla dolcezza da dedicargli la poesia «La Canzone del parrozzo». Appassionato anche di uva, mele ed arance. Ma la sua grande passione furono le uova, in frittata e soprattutto sode, sublimate con salsa d’acciughe. Le tradizioni culinarie rappresentavano per d’Annunzio non solo un’esperienza sensoriale, ma anche un simbolo di identità e appartenenza alla cultura italiana.
«Nuove soluzioni attraverso l’armonia dei sapori e colori delle vivande, l’invenzione di complessi plastici saporiti, la cui armonia originale di forma e colore nutra gli occhi ed ecciti la fantasia prima di tentare le labbra», questo il pensiero di Filippo Tommaso Marinetti (1874-1944) – fondatore del movimento futurista italiano – nel «Manifesto della Cucina Futurista», pubblicato il 28 dicembre 1930. Un fenomeno più culturale che gastronomico, dove il Marinetti prospettava l’abolizione della pastasciutta, considerata nemica della velocità e della modernità, per far posto alla chimica e all’arte. Bandendo persino le posate, per recuperare «il piacere tattile prelabiale». Le innovazioni, in realtà, erano più formali che sostanziali, riprese da concetti propri della cucina rinascimentale e medievale, con l’accostamento del gusto dolce-salato. Per favorire l’immaginazione e il desiderio, i futuristi accompagnano i piatti con musiche, poesie e profumi, dando valore a tutti i cinque sensi, per una commistione con varie discipline artistiche. Una tendenza di cui la cucina, ancora oggi, risulta debitrice.
È Giovannino Guareschi (1908-1968) che si immerge profondamente, più degli altri, nelle atmosfere dei mercati locali, delle fattorie e delle cucine emiliane, descrivendo con vividi dettagli i sapori, gli odori e le tradizioni legate ai piatti regionali. Nei suoi racconti, il cibo diventa un veicolo per esplorare la cultura, la storia e l’identità del popolo emiliano, esaltando la convivialità e il senso di comunità tipici di queste terre. Tra i piatti iconici menzionati nei suoi racconti ritroviamo: il prosciutto di Parma e il culatello, il Parmigiano Reggiano, il Lambrusco, la torta fritta croccante e la spalla cotta. Questi sapori della tradizione diventano parte integrante della trama narrativa, contribuendo a delinearne i personaggi, le atmosfere e le dinamiche sociali. La cucina, insomma, come simbolo di identità, di radici profonde e di legami familiari. Del resto, i suoi celebri personaggi Don Camillo e Peppone riflettono a pieno la connessione con le tradizioni enogastronomiche emiliane.
Il legame profondo e spesso sorprendente, tra cibo e produzione letteraria, connubio tra parole e sapori, ha influenzato non solo lo stile e il contenuto delle opere degli scrittori italiani, ma anche la loro visione del mondo e il modo in cui lo hanno comunicato al lettore, rendendo la letteratura italiana un tesoro capace di soddisfare non solo l’anima, ma anche il palato.
È proprio questa profonda connessione identitaria tra cibo, cultura e tradizione che ispira ITA0039 |100% Italian Taste Certification. Un sistema che promuove e certifica il patrimonio agroalimentare italiano in tutto il mondo, garantendo sicurezza ai consumatori, vantaggi ai ristoratori e supporto ai produttori nazionali. Nato per promuovere e tutelare le eccellenze enogastronomiche italiane e contrastarne la contraffazione, il protocollo mira a sostenere l’economia nazionale, valorizzando le produzioni locali attraverso i ristoranti italiani nel mondo. Ogni piatto racconta una storia, un pezzo di identità e un legame con il territorio di origine. La tutela delle tradizioni enogastronomiche italiane è un atto di rispetto per la nostra storia a vantaggio delle generazioni future e strumento di salvaguardia della cultura del nostro Paese.