L’Italia può essere considerata un vero e proprio laboratorio politico populista. Da sempre.
Com’è noto, non c’è concordanza tra i politologi sui contorni ideologici e le caratteristiche che possano portare a classificare come “populista” un soggetto politico. E’ vero che anche per socialismo, liberalismo, democrazia, nazionalismo esiste un’articolata varietà di declinazioni pratiche, ma è innegabile che una loro definizione teorica sia assai più agevole.
Quando parliamo di populismo gli esempi, storici o ripresi dall’attualità, hanno una tale gamma di declinazioni da rendere complicato rintracciare un minimo comune denominatore in grado di consentire l’individuazione di un nucleo centrale di valori attorno al quale costruire un discorso scientificamente fondato.
Per questo motivo, sin dal simposio organizzato nel maggio del 1967 dalla rivista Government and Opposition presso la London School of Economics, molti studiosi hanno preferito vedere nel populismo uno stile piuttosto che una vera e propria ideologia politica, contraddistinto dalla volontà di chi lo esercita di rivolgersi direttamente al popolo (altro termine semanticamente ambiguo) – normalmente considerato contrapposto ad una oligarchia, una élite, detentrice del potere politico ed economico -, con un linguaggio semplificato ed accondiscendente verso le esigenze, vere o presunte, della massa popolare, articolato in una forma che prevede la disintermediazione del rapporto tra essa e il capo carismatico del movimento. Ulteriori caratteristiche tipiche dello stile populista sarebbero il richiamo all’onestà (virtù incarnata dalla gente comune e tradita dai politici corrotti), la critica all’intellettualismo, il richiamo, per certi aspetti rousseauiano, al rispetto della sovranità popolare, unico fattore di legittimazione delle istituzioni e del potere politico. Un iperdemocraticismo, talvolta affascinato dall’uomo forte (e in certi casi perfino dal desiderio di delegare il governo del paese a chi “ha le competenze”, ai tecnici).
Insomma, il populismo è per sua natura innanzitutto un modello di comunicazione e propaganda adottato da una contro-élite desiderosa di scalzare quella al potere, chiusa in sé stessa e ormai incapace di favorire un ricambio intra- e intergenerazionale delle classi dirigenti. Probabilmente il grande politologo italiano Gaetano Mosca avrebbe riconosciuto in esso innanzitutto un metodo.
Se gli studiosi indicano, per lo più, quali genitori del populismo moderno innanzitutto i narodnicestvo russi e il People’s Party statunitense della seconda metà del XIX secolo, sforzando la nostra immaginazione storica potremmo sostenere che tra i suoi pro-genitori vanno annoverati addirittura i democratici radicali ateniesi della fine del V secolo, oppure i populares dell’antica Roma tardo-repubblicana: anche all’epoca una minoranza organizzata cercava, appellandosi al popolo, di sovvertire l’establishment consolidato e sostituirsi ad esso. E, come oggi, il popolo invocato non erano gli ultimi, ma i penultimi, la grande massa dei cittadini politicamente attiva (o parzialmente attiva), ma troppo debole per contare davvero e che, a seconda della fase storica o della latitudine, può essere rappresentata dai ceti medi impoveriti europei o dai campesinos sudamericani, dai descamisados argentini o dalle giovani masse arabe e via discorrendo.
Se dunque il populismo è uno stile o, addirittura, un metodo di lotta politica, la logica conseguenza è che tale categoria va sempre accompagnata da un termine specificante allorchè si vuole andare a definire l’identità di un soggetto politico concreto: nazional-populismo, social-populismo, etno-populismo, sono solo alcuni degli esempi che si potrebbero fornire e proprio l’Italia si è rivelata nella sua storia moderna uno dei paesi europei più sensibili a tale prassi, nelle sua varie sfaccettature.
Sin dagli inizi del Novecento possiamo riscontrare nel socialismo italiano un impianto sostanzialmente populista: il massimalismo, maggioritario rispetto al riformismo nel PSI dei primi decenni, fu sempre lontano dal dogmatismo marxista, sia per l’influenza ideologica di personalità come Bakunin, Proudhon e Sorel, sia per la scarsa consistenza della classe operaia, fattore che rendeva il bracciantato agricolo e la piccola borghesia impiegatizia il principale blocco sociale di riferimento dei socialisti. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento questa via italiana al socialismo dai tratti populistici ha il popolo minuto come riferimento, dunque, in una logica approssimativamente di classe, e come nemico il sistema giolittiano con la sua corruzione (Giolitti è il ministro della malavita) e la democrazia liberale, il cui parlamentarismo parolaio, trasformista e bizantino, chiuso al suffragio universale, è oggetto di una critica serrata.
Manca il leader carismatico, sebbene negli anni immediatamente precedenti la Grande Guerra ne cominci ad emergere uno, la cui capacità oratoria gli permette di scalare rapidamente le gerarchie del partito: è il direttore de L’Avanti, Benito Mussolini, colui che nel dopoguerra, mutuando le tecniche di propaganda del più innovativo comunicatore del tempo, il poeta-soldato Gabriele D’Annunzio, fonderà il movimento divenuto poi modello di ogni nazional-populismo successivo, il Fascismo.
Nel Fascismo, in particolare in quello antecedente la conquista del potere, ci sono tutti gli ingredienti della fattispecie nazionalpopulista: il popolo inteso come nazione, naturale unità organica artificiosamente frammentata da fazioni e partiti; la saldatura (almeno ideale) tra lavoratori e imprenditori, intesi come produttori, alternativa tanto alla lotta di classe socialista quanto alla plutocrazia profittatrice, entrambe considerate apolidi e nemiche della Nazione; la disintermediazione del rapporto del capo, il Duce, con la comunità popolare, risolta attraverso il dialogo con le masse, mutuato dai discorsi dannunziani pronunciati durante l’impresa di Fiume. Il nazionalpopulismo risulta vincente in Italia (e successivamente in molti paesi del Vecchio Continente) in virtù della crisi strutturale delle identità collettive del vecchio sistema politico liberale, incapace di reinventare i propri meccanismi di rappresentanza dopo l’ingresso delle masse popolari nella scena storica e politica, verificatosi in seguito alla mobilitazione generale della popolazione imposto dalla Prima Guerra Mondiale.
Con il Fascismo quella populista dimostra di essere una prassi vincente, che consente un consistente ricambio e ringiovanimento delle classi dirigenti (l’età media dei dirigenti politici dei regimi fascisti e nazionalpopulisti europei era significativamente inferiore a quella delle democrazie liberali), che una volta stabilizzate, pur mantenendo attive alcune tecniche di comunicazione utilizzate fino alla presa del potere, abbandonano la critica contro il sistema, proiettando contro nemici esterni l’aggressività verbale necessaria a tenere alto il livello di mobilitazione delle masse.
Anche dopo il secondo conflitto mondiale il “laboratorio Italia” continua ad elaborare e alimentare nuovi progetti politici di stampo populista. Significativa è l’esperienza alla fine degli anni Quaranta del Fronte dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, direttore dell’omonimo giornale, che ebbe un vorticoso quanto effimero successo elettorale. L’interlocutore sociale di Giannini era appunto l’uomo qualunque, l’italiano medio, laborioso, onesto, di provincia, fondamentalmente conservatore e patriottico, vessato dalla crisi economica seguita alla guerra, ma anche dalla nascente partitocrazia e caratterizzato da una naturale avversione nei confronti dei politici di professione, corrotti, parolai e nullafacenti. I pittoreschi, roboanti e partecipatissimi comizi del leader qualunquista sono un florilegio di retorica populista, per la sua capacità di semplificare questioni complesse, per la violenza dei suoi attacchi alla classe politica, per l’efficacia empatica con l’uditorio.
Proprio la semplificazione dei temi e la protesta contro il sistema dei partiti avrebbero contraddistinto il “populismo libertario” del Partito Radicale di Marco Pannella, che ebbe un certo successo verso la fine degli anni Settanta, anche per la sua capacità di utilizzare uno degli strumenti prediletti dalla prassi populista: i referendum popolari, vera panacea dei fautori della democrazia diretta, unico veicolo in grado di bypassare i meccanismi articolati e laboriosi della democrazia rappresentativa moderna e dare voce (surrettiziamente) alla volontà popolare.
Ma è con Silvio Berlusconi e con il leader della Lega Nord Umberto Bossi che l’Italia acquisisce un vero e proprio primato in Europa, codificando tecniche, linguaggi e parole d’ordine del populismo contemporaneo, valide per l’intero continente.
Quello berlusconiano è stato definito, in particolare da studiosi francesi, “tele populismo”, con riferimento al modo innovativo con cui l’imprenditore, e principale editore del paese, ha utilizzato non solo le sue reti televisive, ma in generale la comunicazione in TV. Il suo stile, immediato e diretto, ha modificato il registro dei talk show, determinando una forte polarizzazione del confronto.
La critica nei confronti del “professionismo politico” e del “fisco vessatorio” sono stati i mantra del leader di Forza Italia e hanno a tal punto pervaso il discorso pubblico da divenire senso comune. Il tracollo in Italia della Prima Repubblica e dei partiti che la guidavano (anche in questo caso una crisi senza ritorno delle identità collettive precedenti) ha favorito tale processo. In Berlusconi è stata martellante la messa in berlina del “teatrino della politica” (che ha poi aperto la strada all’antipolitica vera e propria), la delegittimazione dei corpi intermedi, l’appello al paese reale e laborioso contro parassiti e politici “asserragliati nel palazzo”. La stessa Forza Italia si è caratterizzata come un modello di partito nuovo, il partito-azienda o partito in franchising, molto personalizzato e allergico ai vecchi riti (assemblee, congressi, mozioni programmatiche ecc.). Molti movimenti populisti sorti in Occidente negli ultimi vent’anni, compreso il fenomeno Trump, devono molto della loro organizzazione e del loro linguaggio al berlusconismo, che in realtà può essere classificato come una sorta di populismo liberale.
Con Bossi e la sua Lega ritroviamo invece l’altra variante di successo della prassi populista europea degli ultimi tre decenni, l’etno-populismo, con la sua lotta contro il potere finanziario internazionale, l’impersonalità delle tecnocrazie burocratiche (quella dell’Unione Europea innanzitutto), l’immigrazione selvaggia (in particolare di matrice islamica), con un’interlocuzione rivolta ad un popolo idealizzato in chiave voelkisch, ancorato alle sue tradizioni e alla sua identità minacciate dalla globalizzazione, evolutosi poi in una forma di nazionalismo, quello incarnato da Matteo Salvini, non più espansionista e imperialista, ma squisitamente difensivo.
Ma che l’Italia sia da ritenersi un paese d’elezione per la sperimentazione di formule populiste è confermato anche da altri fenomeni recenti, come la breve parabola di Matteo Renzi alla guida del Partito Democratico, con il suo tentativo di modificare la sinistra italiana e renderla appetibile dall’Italia profonda, o il movimento arancione del sindaco partenopeo Luigi de Magistris che a Napoli ha dato vita, con l’appoggio dell’estrema sinistra, ad un originale mix di berlusconismo e populismo alla sudamericana.
Insomma l’Italia ha offerto nel corso della sua storia ed offre tutta la gamma di populismi disponibile alla ricerca empirica: il richiamo al favore popolare, spesso declinato polemicamente contro i media, gli apparati, gli intellettuali lontani dai sentimenti del popolo, risulta essere una costante duratura e vincente in un paese il cui processo di costruzione unitaria fu voluto ed attuato da una élite laica e progressista, quella risorgimentale, prescindendo dal e, per certi aspetti, contro il popolo stesso, conservatore e cattolico, che determinò un duraturo scollamento tra Stato e istituzioni da una parte e cittadini dall’altra. Due entità così estranee da favorire la crescita di quei movimenti in grado di incarnare l’aggressività nei confronti dell’establishment in momenti di particolare crisi politica, istituzionale ed economica. Eppure gli esempi citati, spesso vittoriosi, sono tutti inquadrabili in una qualche Weltanschauung, in grado di orientarne un’azione coerente. Con il Movimento Cinque Stelle, invece, il Belpaese è riuscito a produrre, quasi alchemicamente, un unicum mondiale: il populismo nichilista, ovvero una compagine politica che presenta tutti gli ingredienti dello stile populista, privi però di qualunque orientamento ideale o valoriale. Un prototipo che mostra come il populismo sia innanzitutto un metodo in grado di attivare un ricambio delle classi dirigenti, al netto delle effettive competenze, ma che, se privato di qualunque riferimento politico-ideologico, riduce la sua prassi alla semplice ricerca del potere-per-il-potere, senza alcun contenuto, al punto che l’attuale premier italiano Giuseppe Conte, espressione del M5S, ha potuto per un anno essere considerato il presidente del consiglio più a destra della storia repubblicana (alleanza Lega–Cinque Stelle) e proporsi oggi, mentre guida un governo sostenuto da tutte le sigle della sinistra, come leader di un’ampia coalizione che “sappia sbarrare il passo alle destre”.
*Questo articolo è apparso giovedì 27 febbraio 2020 sul mensile francese Le spectacle du monde, inserto di approfondimento del settimanale Valeurs actuelles, in un numero monografico dedicato al tema del populismo assieme ad altri saggi firmati dal noto giornalista britannico tory Douglas Murray, dall’esperto di geopolitica Djordje Kuzmanovic, dal giornalista e politologo Jean-Yves Camus, dallo scrittore Max-Erwann Gastineau, dal sociologo di fama mondiale Pierre-André Taguieff, e dal filosofo israeliano Yoram Hazony. Il dossier è stato curato da Antoine Colonna.